IL LIBRO CHE AMO DI PIU’

La letteratura dell’esperienza, nel Duemila, sembra qualcosa di rivoluzionario, di inesistente come categoria. Esperienza come vita vissuta, arcano di ciò che è accaduto, di ciò che accadrà, di ciò che capiamo e non capiamo in un confine molto sottile dell’esistenza. Letteratura come osservazione di sé e degli altri. All’interno di un romanzo non tutto può essere espressione della lingua, perché il lettore non lo capirebbe, sentirebbe il peso dell’inesprimibile. I romanzi si giudicano quando si leggono, con la speranza di trovare ancora lo stupore della vita quotidiana. La letteratura è un avvenimento, non solo un percorso di parole. La critica sceglie e il tempo sedimenta. Qui sta lo snodo tra la qualità e il mercato. In proposito oggi sembrerebbe improbabile scrivere della morte di un bambino, come ha fatto il francese Philippe Forest. Colpisce la frase di Yūko Tsushima che Forest ha messo in esergo al suo romanzo Tutti i bambini tranne uno (Alet 2005) dedicato alla figlia Pauline, morta per un osteosarcoma al braccio. “Nel nostro mondo, la morte di un bambino, o un’altra morte altrettanto crudele, è diventata qualcosa che si dimentica nella vita di tutti i giorni, al punto che bisogna ricordarla sotto forma di racconto”. Il romanzo sulla morte dimostra che le parole non salvano e che i corpi amati scompaiono lo stesso. La figlia di Forest morì per un male che contrassi anch’io, a 13 anni. L’affinità elettiva nasce da un’esperienza simile, ma dai risvolti diversi. Il sottoscritto è ancora qui, come testimonia Il talento della malattia (Avagliano 2012). Scrive Forest: “Qualcuno era vivo. Poi non c’era più niente. La vita si è ritirata. Quello che resta sul letto non era più la bambina. L’agonia era ancora la vita, poi qualcosa è accaduto. La morte è la verità dell’istante. Penetra il tempo, lo avvolge”. Siamo realmente in un doppio tempo, quello della vita e della morte. Il primo aspetto dell’esistenza terrena, relaziona l’uomo con l’uomo, con gli oggetti, con la materia. Il secondo aspetto è sconosciuto, è il mistero che induce a voler capire. L’uomo di fede abbraccia un’umanità di passaggio, un senso pervadente di comunanza e destino. L’uomo che privilegia il dubbio leopardiano è invece in una posizione agnostica. Non sa, ma si pone il problema. Nessuno può spiegare né l’esistenza di un’entità superiore, né la sua assenza. La posizione di Forest è razionale e sensoriale. Razionale come dato, sensoriale come intuizione. Ma anche chi non crede ha una tensione sofferente. La nascita e la morte: oggi un’ondata insana di superficialità fa credere che l’uomo sia padrone di sé. Mai come adesso si parla di morte solo in seguito ad una sciagura, perché un decesso è spettacolo e sensazione, non un evento terminale nel ciclo della vita. Lo abbiamo detto spesso: la morte come un incidente che non doveva succedere, ma è successo solo per l’intervento di un agente esterno che l’ha provocato. Si pensi alle sciagure aeree o ai delitti in famiglia. Il tempo non è più decretato da un cerchio ripetitivo che dalla nascita conduce inevitabilmente alla morte. L’ovvietà è repressa da una “cultura della messaggeria”, da brevi comunicazioni, spot, cenni per lo più inclini al male e che fanno il verso alla fiction cinematografica. L’esistenza è diventata una corsa contro il tempo, una sfida alle regole. Forest sa che viviamo nel regno dei finali drammatici, ma la stranezza è che occorre accettare l’esperienza del male per toccare il senso vero della gioia e dell’amore. “Il lungo anno in cui morì nostra figlia fu il più bello della mia vita”. Una frase così, la può dire solo un padre sfacciatamente innamorato, disperato, inerme, sarcastico, corazzato di tutta l’eloquenza della lingua francese. Philippe Forest racconta la vita e la morte di Pauline dal primo all’ultimo giorno. La intreccia e la fonde con la storia della letteratura. Il libro finisce con un sogno: “Al mattino mi chiama con la voce allegra del risveglio. Salgo in camera sua. E’ debole e sorridente. Scambiamo le nostre frasi quotidiane. Non può scendere le scale da sé. La prendo in braccio. Sollevo il suo corpo infinitamente leggero. La sua mano sinistra si aggancia alla mia spalla; fa passare intorno a me il braccio destro, sento nell’incavo del collo la presenza tenera della sua testa nuda. Reggendomi al corrimano con lei addosso la porto con me. E ancora una volta, verso la vita, scendiamo i gradini ripidi della scala di legno rosso”.

Alessandro Moscè

 

 

 

 

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