VOLA CECCO, VOLA

Per me era una serata come un’altra, mentre mangiavo la minestra con il formaggino “Mio” seduto al tavolo della cucina con un cuscino sotto la sedia di ferro. Avevo 8 anni. Emilio Fede diede la notizia, frammentaria, in apertura di telegiornale. L’afferrai. L’infanzia venne spezzata, e per la prima volta capii che la morte toglie di mezzo le persone, anche le più giovani, capovolgendo la logica della giovinezza. Un preambolo è doveroso. Erano gli anni dell’ideologia di piombo tra le frange di destra e di sinistra, delle tensioni sociali e politiche improvvisamente riaccese per le strade della capitale. Solo nel 1976 c’erano stati 191 omicidi, 2406 rapine e 286 sequestri di persona. La Banda della Magliana stava per prendere possesso della malavita e per mettere in piedi una rete senza precedenti per controllare l’intera città. A Roma, quando faceva sera, i negozianti avevano paura, temevano le rappresaglie, le rapine, e si chiudevano in una specie di bunker. Fu una tragedia che sconvolse l’Italia sportiva, emotivamente, e che avvenne in circostanze del tutto casuali, come sul set di un film western che andava di moda in quel periodo. Non riguardò una persona qualunque, ma un giocatore simbolo della Lazio campione d’Italia nel 1974. Biondo tanto da sembrare un nordico (“Cecconetzer” per la stampa, accostato a Günter Netzer, calciatore tedesco del Borussia Monchengladbach), una tra le figurine Panini più ricercate: Luciano Re Cecconi, appena 28 anni. Nel libro reportage Aveva un volto bianco e tirato (Tunué 2016), un mix tra narrazione e documentario, indagine e racconto, il giornalista di La7 Guy Chiappaventi ripercorre meticolosamente il caso, che sembra riaprirsi dopo decenni di silenzio colpevole. Cosa disse il calciatore entrando in una gioielleria di Roma, quartiere Fleming (via Saverio Nitti)? Inscenò davvero una finta rapina? Non disse nulla? Perché l’orefice Bruno Tabocchini sparò a bruciapelo? Lo conosceva? Non lo aveva mai visto, nonostante abitassero a pochi isolati l’uno dall’altro, e nello stesso stabile di Tabocchini fossero inquilini due calciatori della Lazio? Perché non venne fatto il processo di secondo grado e ci si fermò alla prima sentenza che assolse l’imputato per legittima difesa? Scrive Chiappaventi: “La lobby dei gioiellieri era così forte da poter salvare uno dei suoi che aveva sparato alla persona sbagliata, quando tanti orafi praticamente ogni giorno venivano rapinati e qualche volta ammazzati dai banditi?”. Il 18 gennaio 1977 è una giornata fredda, piovosa. Re Cecconi, mezz’ala di talento, veloce, sta per rientrare in squadra dopo un lungo infortunio. Muore in ascensore, all’ospedale San Giacomo, mentre lo stanno portando in sala operatoria. Il Paese è sgomento, i bambini piangono. Anche quelli della Juventus, del Milan, dell’Inter. Ai funerali, nella basilica di San Pietro e Paolo all’Eur, partecipa mezza Roma. Il capitano Wilson alza la bara, indossa gli occhiali scuri. Dietro di lui Pulici, D’Amico, gli altri. Re Cecconi era “il saggio” per i suoi compagni della Lazio: semplice, equilibrato, senza vizi. Non aveva il porto d’armi. Ha giocato in una formazione che Pier Paolo Pasolini definì “delirante”, capeggiata da un centravanti bizzoso, Giorgio Chinaglia, che si divertiva, con gli altri, a sparare ai lampioni dalla finestra di un albergo, durante i ritiri. Quella compagine si è disciolta in poco tempo, ma Re Cecconi è ancora un personaggio amato e osannato dai suoi tifosi. Guy Chiappaventi ricostruisce la dinamica di quella maledetta sera che lo ha ossessionato da sempre. Un giocatore giovane, bello, ricco e famoso perde la vita stupidamente, in pratica sotto casa, davanti al suo marciapiede. Perché mai avrebbe dovuto fare uno scherzo? Le carte di quel processo sono controverse. Il compagno di squadra Pietro Ghedin, che era con Re Cecconi, non sente nulla a quanto sembra, e neppure un profumiere che accompagna i due. Il gioielliere è provato da agguati avvenuti qualche tempo prima. In una Roma sconvolta, ha già sparato. L’ora tarda, prima di cena, è proprio quella delle rapine. La paura, del resto, è la peggiore dei consiglieri. Le ricostruzioni non bastano per spiegare cosa è successo in un budello di negozio confinato in una zona signorile della capitale. Re Cecconi non c’è più, ma la sua memoria è leggendaria. Chi muore giovane diventa caro agli dei. Morì un campione, un eroe che da carrozziere nell’hinterland milanese, aveva trovato fortuna in serie A, partecipando anche ai campionati del mondo del 1974. A 28 anni sembrava invincibile, specie quando correva in campo dalla fascia sinistra per spostarsi al centro. E’ sempre freddo se si passa davanti a quel negozio di via Nitti dove adesso c’è un ottico, non più un’oreficeria. Ma il numero 8 è ancora un Re. Nel 2008 il figlio del campione, Stefano, ha dato alle stampe Lui era mio papà (Reality Book). Il libro lo ha dedicato alla madre, per “quella sedia sempre vuota”. Stefano Re Cecconi è un amico, ci sentiamo spesso. Chiude il suo racconto con una frase che una volta mi disse personalmente a Roma, mentre passeggiavamo in Piazza della Libertà: “Mi basterebbe un attimo diverso per sentirmi addosso il suo abbraccio e la sua voglia di vivere che è cresciuta in me”. Vola Cecco, vola, generoso e indomabile, come quando hai saltato metà difesa della Juventus e sei andato a segnare un goal incredibile a Dino Zoff, il tuo ultimo, e la curva nord è esplosa in un boato interminabile. Per molta gente sei un sentimento forte, anche se non ti vediamo più da tanto tempo.

Alessandro Moscè

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