PIER VITTORIO TONDELLI E LA FAUNA ARTISTICA

Ci sono due strade che uniscono la verità di uno scrittore: la narrazione e il saggio. Se nel primo caso si scrive ciò che si è vissuto, nel secondo si supera il tempo della scrittura e si aggiunge quello della maturazione di questo vissuto. Nel primo caso si depone la scrittura perfino angusta della narrazione, nel secondo la si feconda. Se nell’opzione narrativa lo scenario è crudo, nella seconda svolta è invece severo, ragionato. Pier Vittorio Tondelli, con Week end post moderno. Cronache dagli anni Ottanta (Bompiani 1990, ripubblicato più volte) adotta la formula del romanzo narrato che ha unito un’illuminazione e l’altra della scrittura. Sia perché descrive sotto forma romanzesca, sia perché osserva da un punto di vista critico. “In anni non lontani, avrei pensato alla via Emilia come a una grande città della notte estesa trasversalmente sulla pianura del Po e percorsa, senza interruzione, dai Tir e dalle automobili, con le grande discoteche come il Marabù di Villa Cella o il Bob Club di Modena innalzati nella campagna come sontuose cattedrali del divertimento, templi postmoderni di una gioventù ricca, attiva, disinibita”. Tondelli fa, sostanzialmente, un esperimento innovativo per quegli anni: attiva il patchwark, unendo idee e simboli, dimensioni saggistiche e suggestioni, racconti cittadini e notturni, con la commistione di arti, tra il figurativo, il pop, il rock, il fumetto, i video clip e la multimedialità per ciò che definisce fauna artistica. Insomma, lo scrittore di Correggio unisce molte discipline, in una sorta di metaracconto e di remix tra dimensione umana e scoperta della realtà giovanile circoscritta specie alla riviera romagnola. Per Tondelli esiste il tempo della comunicazione, della cronaca, il senso di ciò che succede e che dovrebbe affascinarci per ciò che rappresenta nella sua nudità. Altrimenti il viaggio non solo non sarà più testimoniale, ma apparirà disumano. Il tempo della comunicazione ci offre un modello anche tecnologico, ed erano le prime avvisaglie degli anni Ottanta. Lo sguardo vitale di un decennio è sempre allargato come in una telecamera, capta i comportamenti e non li giudica, ma li classifica. Specie se provengono dalla provincia, dalle celebrazione dei riti, della normalità nei bar, nei caffè, nei giri con i motorini, nell’ascolto della musica di tendenza in un’Italia americanizzata. L’aspetto interessante sta nella non trascuratezza della frammentazione, della formazione di bande e tribù (dark, new wave, dandy, punk ecc.) alla quale viene data un’anima, un contenuto. Di fondo si innesca un processo di sincronia tra azione e riflessione, tra il narratore e il saggista che hanno un compito: raccogliere scenari e mode in modo sensoriale e partecipe. Il romanzo non è più un modello classico e ricorrente. E’, per Tondelli, qualcosa di scevro da un’invenzione. Coincide allora con una condizione umana che si confronta con la realtà testimoniale. Cioè, si può essere romanzieri quando l’esistenza è già di per sé oggetto letterario, quando alcuni fatti, per come si sono svolti, valgono un libro. Basta scoprire l’evidenza e sceglierla. In Pier Vittorio Tondelli si registra una mitologia sviluppata attraverso un susseguirsi incessante di storie che si intrecciano in una summa di epicità, mentre la storia, per dirla con James Joyce, è “l’incubo da cui sto cercando di risvegliarmi” (la mitologia momentanea contro la storia di una comunità, potremmo dire). Si delinea un viaggio a ritroso nel tempo, all’origine di un’identità che accomuna, che ritrova un patrimonio vivo di vicende, un assoluto immemore. Come se un’energia proiettasse orizzonti remoti fino ai nostri tempi. L’avventura passa attraverso la costruzione di fatti che si cristallizzano in un tempo creativo, stupito, riflessivo.

Alessandro Moscè

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