GUIDO CONTI: IL ROMANZO STORICO E PICARESCO

Gli uomini delle istituzioni sono raramente soggetti protagonisti dei romanzi italiani. L’ufficialità di un ruolo pubblico non è una spinta propulsiva per scrivere libri che abbiano uno sfondo creativo. Non un romanzo su Mussolini, Togliatti, De Gasperi ecc. Ciò che appartiene alla cronaca rimane confinato dentro uno schema rigido, giornalistico, dal quale evadere significherebbe reinventare la storia, surrogarla di una presunzione e di un’aggiunta con il rischio della falsificazione. Il cinema è stato foriero, viceversa, di esempi di capi di Stato assurti ad un immaginario collettivo, ad una biografica sequenza estrapolata dai saggi, penetrata nella vita privata, specie quando quest’ultima è diventata scottante, scandalistica. Ma la configurazione si attiene a ciò che emerge palesemente. In questi giorni è stato celebrato Carlo Azeglio Ciampi, morto a 95 anni, come l’ultimo padre di un modo di intendere la politica: con rigore e passione, con acume, super partes da Presidente della Repubblica. Un uomo schivo, quindi prevedibile, inattaccabile moralmente, garante della Costituzione, definito un “anestesista” per la sua capacità di sedare gli animi. C’è stato un romanzo che ha costituito un’eccezione alla regola, scritto da Carlo D’Amicis e pubblicato da Minimum Fax nel 2010, e che rappresenta allegoricamente la seconda rivoluzione antropologica dopo quella degli anni Sessanta individuata da Pier Paolo Pasolini. La battuta perfetta, questo è il titolo, vede Filippo Spinato diventare consigliere di Silvio Berlusconi dopo essere stato consulente della Rai. Persegue il modello imperante, euforico, di chi cerca consenso. Quel riso dionisiaco si oppone la serietà morale del figlio Canio che non si riconosce nell’ipervisività per cui tutto ciò che esiste dovrebbe apparire in televisione. Il culto dell’io è trasformato in una moda, più che in un’ingerenza, in un appiattimento sociale. Berlusconi è l’uomo del comando, il seduttore nell’epica del presente. I personaggi della politica e la loro sorte: Guido Conti, con il suo La profezia di Cittastella (Mondadori 2016) va indietro nel tempo, al novembre del 1510, e ci racconta di un bambino sfuggito alla ferocia del duca Filippo e cresciuto da frate Bernardo sulle rive del Po. Il romanzo storico, data la distanza temporale dall’accadimento dei fatti, allarga le maglie e permette di avventurarsi picarescamente oltre la documentazione autorizzata, esaltando le gesta dei puri. Come in un cannocchiale rovesciato i fatti sono diluiti e i personaggi incarnano fantasmi che non sarebbero tali se vivessero la nostra contemporaneità. Ci vuole un intervallo di seicento anni. Il bambino diventa giovane uomo: Ruggero si imbatte nella rivolta al duca da parte della popolazione ridotta allo stremo, povera, ammalata di peste. Arrivano i Lanzichenecchi guidati dall’imperatore Carlo V e lo scenario di morte e distruzione si insidia nei salotti del duca, che ama contornarsi di nani e giullari, di belle donne. Nasce l’amore tra Ruggero ed Eleonora, promessa sposa proprio del duca. L’uomo delle istituzioni, nel romanzo di Guido Conti, è un disarmante dux, un privilegiato insignito della corona. Potrebbe essere equiparato al colonnello di un regime militare che fa pesare la collocazione nella scala gerarchica, che il suo potere lo esercita con l’assolutezza della forza, ma con poca astuzia. Conti è bravo nel rendere al romanzo quella tensione necessaria perché l’ordine venga sovvertito, capovolto. Ruggero è un eroe che oggi non esisterebbe mai. Sembra uscito da un romanzo di Salgari, nella sua temeraria azione addolcita dall’amore e da una giusta causa. La ricostruzione, a partire dalla golena del Po, è ben curata e il romanzo non langue. Le rive del fiume si ammantano di un’acqua scura che trascina cadaveri, che scorre sotto il segno di una drago simbolico, mentre la piena riempie la lanca. I pioppi si seccano, i cervi e i cinghiali muoiono di fame, i contadini sono costretti a mangiare i gatti e i corvi fanno pulizia delle carogne abbandonate. Guido Conti si è attenuto alla verità storica di un Rinascimento sconvolto nell’Anno Domini 1525, ma si è ispirato al senso della rivoluzione nella sua terra che ben conosce. Seguendo l’esempio di Walter Scott, racconta di persone comuni dentro un ingranaggio dove la microstoria si inserisce con duttilità in un contesto di macrostoria. Fa parlare la voce inascoltata, solitaria. Ruggero è un corsaro senza macchia né paura, ma con un sentimento candido, infantile. Il linguaggio scabro ne esalta il pensiero subitaneo, non solo il movimento dei passi per la salvezza di sé e dell’amata in un’area geografica refrattaria alla sottomissione, in un regno di sopravvissuti che fuggono e tornano gioendo come si fa con i fuochi di fine inverno per salutare la primavera.

Alessandro Moscè

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