Ad aprile di quest’anno è uscito il mio romanzo Le case dai tetti rossi edito da Fandango. Tratta il tema dell’alienazione mentale e della reclusione in un istituto psichiatrico tra gli anni Sessante e Ottanta, con un’appendice che arriva ai giorni d’oggi. Il tema della follia appassiona da sempre il grande pubblico: basti pensare a film di successo come Qualcuno volò sul nido del cuculo, A beautiful mind e Ragazze interrotte. Tutti incentrati sul male psichico. Ma qual è la ragione di un interesse diffuso verso il turbamento dell’anima più che del corpo e verso il tentativo di uscire da una condizione di annebbiamento, di isolamento del pensiero? Nel firmare alcune copie del libro ho scritto che “nel labirinto della mente non si entra e non si esce mai del tutto”. Nell’ex manicomio di Ancona i vecchi trattamenti sanitari subiti dai ricoverati erano impressionanti: si usavano indiscriminatamente l’elettroshock, l’insulina e i bagni nell’acqua ghiacciata. La più grande rivoluzione nel dopoguerra fu attuata con l’introduzione della Legge Basaglia e con la chiusura dei manicomi. Una conquista sociale e di civiltà al pari dello Statuto dei Lavoratori e della legalità del divorzio e dell’aborto. Ma torniamo al punto di partenza, che va oltre la mia narrazione, pur costituendone la genesi. Che cosa ci spaventa e che cosa ci affascina del male della mente? La sua indecifrabilità, la sua aleatorietà, il non sapere dove si annida con precisione. Ci affascina ciò che fa paura: perdere il controllo di sé, della propria ragione. La confusione, o delirium dal latino de lira, “fuori dal solco”, è nient’altro che un’alterazione dello stato di coscienza. Ma che cos’è la coscienza? Che cos’è l’anima? Il poeta Gianfranco Lauretano, in esergo ad un testo annota una frase dell’aforista colombiano Nicolás Gómez Dávila: “L’anima è il compito dell’uomo”. Il componimento di Lauretano si conclude con questi splendidi versi: “Il corpo triste e rannicchiato / sta alla nostalgia degli altri corpi / s’incammina per le strade / lunatiche dei sogni, quei buffi / o spaventosi accadimenti / e va dicendo all’anima succedi”. Uno dei ricoverati del mio romanzo, Nazzareno, si traveste da clown e parla con i pozzi ascoltando voci immaginarie. Franca ha paura che possano tornare i nazisti e Carlo si sente Sandokan. Sono personaggi distanti, separati, fuori della realtà. Nei primi anni Settanta, ad Ancona, un incrocio di strade ancora poco trafficate dagli impiegati pubblici che avevano l’automobile, per lo più la 600 multipla o la Bianchina, si dispiegava costeggiando i palazzi costruiti nell’immediato dopoguerra. Facevano da contorno al rione del Piano e a quello di Posatora vicino la chiesa votiva di Santa Maria Liberatrice, dove si diceva che si fosse posata la Madonna per prendere fiato nel volo verso Loreto. In mezzo, in via Cristoforo Colombo, c’era il manicomio che sostituì la Casa dei Pazzi di via Fanti, dove vivevano i mentecatti e chi disturbava la quiete pubblica. Me lo ricordo bene quel complesso di stabili con i tetti rossi a pochi passi dalla casa di famiglia. Non ho mai dimenticato i racconti sventurati, le volte che mi sono avvicinato a quel luogo malfamato, il timore di superare il cancello, i rimproveri di mia madre quando fissavo i degenti appoggiati alle ringhiere, le strattonate, le raccomandazioni di girare al largo se fossi uscito da solo per comprare i fumetti incellofanati. Il giorno della vendita della casa sono entrato nell’ex manicomio, dove adesso si trovano dei poliambulatori e la caserma delle Guardia Forestale. Sono tornato indietro nel tempo, in una dimensione che non mi appartiene più, in un punto limite però incancellabile. Per scrivere il romanzo ho rintracciato le vite di alcuni degenti e dipendenti di quel manicomio. Qualcuno me li ha descritti come in un rito atavico. Credo di aver focalizzato l’assunto: il male della mente, nella routine quotidiana, è un canale di negazione della diversità, della debolezza, della povertà morale e materiale. Tutto ciò che sfugge al benessere e alle norme ordinarie della comunità rappresenta una parte di noi, eppure scegliamo di non esprimerla. Per questo il male invisibile ci attrae in maniera inspiegabile. Come l’anima che possiamo solo testimoniare, che sentiamo irraggiungibile. Ciò che non si tocca con mano conserva una strana seduzione.
Alessandro Moscè