Elisa Donzelli, con Album (Nottetempo, 2021) ha dato alle stampe una silloge poetica che pone al centro della dialettica un sentire quasi di pubblico dominio e al contempo un universo privato. L’autrice è nata a Torino nel 1979 e da più di trent’anni vive a Roma. Scrive nel testo d’apertura: “ho sognato stanotte / che ti stavo sognando / e così facendo / ti stavo perdendo / perdendo il ricordo di te / per quello che brevemente / sei stata che non sei stata / e non sarai nei giochi / di mio figlio che adesso / vuole raggiungere / la tua età / la mia”. Questo testo sembra conglobare una genetica epistemologica, un processo cognitivo che assembla le somiglianze che non si vedono, ma si avvertono. Del resto Elisa Donzelli richiama spesso la “custodia” dell’altro mediante istantanee, fotogrammi, flash immaginativi, ricordi specchiati che hanno una precisa collazione spazio-temporale, oppure sono lacerati e contratti in un’entropia collocata al di fuori dell’anamnesi. L’album, il titolo del libro, è soprattutto la metafora della scatola delle fotografie dove finiscono le fasi della vita. “E le trovo sfuse nei decenni, ottanta, novanta zero dieci sono numeri non anni”, riferisce Elisa Donzelli in una breve prosa. In fondo lo spirito con cui viene condotta la ricerca di una tramatura e di un vettore, lo stimmung che fa da dimensione cartesiana, è di natura affettiva. La poesia, allora rimane composta formalmente e racchiusa nella perdita immedicabile, nell’impossibilità di arginare un silenzio oscuro, nel compito che va oltre la testimonianza, quasi identificando una linea di destino nella formula di chiusura che attinge spesso all’infanzia perduta (“Sono dove tu ci sei i miei primi ricordi, / alle finestre che da sempre abbiamo / abitato aperte sulle Tuileries / con le bambole in fila da rimproverare”). Non mancano le canzoni di un’epoca, la rock star Madonna, il gruppo statunitense dei R.E.M., la cartolina per Alberto Morava al mare in una casa “sulla lingua di sabbia”, la verità vertiginosa che sgorga da episodi, dalla determinazione occasionale, così come da una fissità contemplativa e dolorosa che funge da constatazione aggiunta. Una poesia si intitola Linfoma H (si tratta del linfoma di Hodgkin, un tumore del sistema linfatico): “scende senza avviso / sulle nostre vite / e non si vede il male / che avresti preso tu / per me se potevi / scambiare il dolce / e l’amaro del sangue”. Un amalgama persuasivo accompagna questa poesia in una disposizione epifanica, pur non mancando i nodi cruciali, i lampi improvvisi e tesi, una fruizione visiva, tattile, tendente al diarismo, ad una giovanile predisposizione che predilige forme espressive confidenziali, più che di natura descrittiva. Non mancano le intermittences du coeur, gesti e movimenti sedimentati nelle ripercussioni testuali, specchio di uno sguardo lenticolare per afferrare il sentimento del tempo: “te lo ricordi Nora / il 25 aprile del 1994 / quando a quindici anni / abbiamo preso il treno / e la pioggia scendeva / sul Duomo di Milano?” L’anima si snoda in un incessante tempo restituito nel suo momento perfetto, dove non si riconoscono il presente e il passato, nel culmine del recupero di un’età definibile, ma associazioni mnemoniche che evocano scene evanescenti tra cronaca individuale e storia collettiva. I ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza ritrovano un’originaria unità, un sentimento mai edulcorato, ma infittito di ritorni. Scrivere di esistenze minime, del resto, è il miracolo di ogni poeta che esce volontariamente dall’informazione asettica per conoscere un altro linguaggio.
Alessandro Moscè