“Se stessi con un vestito bianco ad un matrimonio e arrivasse un pallone infangato, lo stopperei di petto senza pensarci”. Genio e sregolatezza, Diego Armando Maradona ha riscattato la povertà, non solo la sua. E ora che non c’è più lo stadio San Paolo di Napoli accende le luci, gli tributa l’ultimo, commovente omaggio. L’Argentina si ferma, attonita, ammutolita. Il campione ha dato forza e gloria ad un popolo vincendo da solo il titolo mondiale, in Messico, nel 1986. Non fu solo un’impresa sportiva, con quel goal all’Inghilterra superando in velocità mezza squadra avversaria partendo da centrocampo, ma anche un’incredibile beffa. Segnò una rete di mano, la mano de Dios, e compì l’affrancamento, la rivincita tanto attesa. La sua Argentina aveva perso le Isole Falkland aumentando il patriottismo nel Regno Unito, con in primo piano il ministro Margaret Thatcher. Era il 1982 e la vendetta venne consumata quattro anni dopo sotto gli occhi di tutto il mondo. Agli inventori del calcio e ad un Paese disastrato dal quale proveniva, si oppose la strenna del Pibe de Oro che oscurò chiunque, anche i politici, la stessa impeccabile Thatcher. A Napoli, dove ha giocato per sette anni, era il condottiero, soffocato dall’amore di una città intera e da uno stadio che arrivò a contenere 90.000 persone durante le sfide domenicali, pur di vederlo, di toccarlo. La Napoli chiassosa e disagiata, grama, aveva trovato chi la ponesse, finalmente, sull’onore degli altari e non più a marcire nei bassifondi italiani. Diego ai napoletani assomigliava nel temperamento. Era nato in un sobborgo di Buenos Aires, a Lanus. Da bambino giocava nella sabbia, tra i diseredati e i mestieranti. A Villa Fiorito, in mezzo alla miseria e alle baracche, negli anni Settanta nasceva un talento che avrebbe cambiato la storia del football. Nel 1985, giunto da pochi mesi a Napoli, gli chiesero di giocare una partita ad Acerra per un bambino gravemente ammalato. Il presidente Ferlaino negò il pullman e l’assicurazione. Maradona andò a giocare lo stesso in mezzo alle auto parcheggiate. Tozzo, basso, fisicamente non dotato (“divino scorfano”, lo ribattezzò Gianni Brera), aveva un’esecuzione balistica perfetta e il controllo di palla come nessun altro. Velocissimo nell’esecuzione, nel cambio di passo, nel trasmettere la carambola che arrivava al naturale prolungamento del pallone, il suo piede sinistro. Maradona soffriva mentre giocava, era inquieto, un lottatore indomito. Se lo inquadravano si notava immediatamente il volto contratto, sudato, spossato. Gli occhi gonfi, cupi. Cercava l’uno contro uno come nel pugilato e nel rugby. Il dribbling fungeva da cornice, ma il quadro non era il goal, nemmeno il passaggio, l’ultimo, l’assist. Era l’essere un uomo solo. Undici nemici che si avvicinavano con la scure in pugno. Un campione, da solo, perché gli altri lo sbranassero, lo intimorissero con ogni mezzo. Lo hanno abbattuto, gli hanno spezzato tibia e perone, ma lui si è sempre rialzato. Dolente, tormentato, martire. Se il Napoli non girava si caricava la squadra sulle spalle. Enea in fuga sorreggeva Anchise, una figura mitologica, l’eroe di Troia trasferito in una specie di rinascimento tra riva, baia, Vesuvio e San Paolo, lo stadio del riscatto dei Quartieri Spagnoli e dei vicoli con i panni stesi da un muro sverniciato all’altro. Se negli spogliatoi emergeva tensione, il carisma di Maradona dava immediata sicurezza alla squadra. Si metteva a palleggiare con un’arancia e i compagni applaudivano a ritmo, seduti sulle panche. Diego Armando scelse una città povera che amava il suo scugnizzo identificandosi nella sua provenienza, in quei quartieri descritti da Matilde Serao o nelle Quattro Giornate di Napoli, nella rivolta popolare. Maradona soffriva perché non era nato felice. La sua maglia risultava spesso scucita da chi gli si attaccava come un parassita, ma non si lamentava. Platini vestiva i panni del Marchese sardonico a Torino, mentre Napoli aveva trovato il suo Masaniello e lo osannava, lo opprimeva. Dicevano che le roi Platini non si sporcasse il culo, che giocasse da fermo. Aveva un’eleganza sorniona, un tocco di palla appena percettibile, come di chi alza un bicchiere. Zico era lo specialista delle punizioni a foglia morta, Falcao uno fine, sempre a testa alta. Pelé sembrava una farfalla, leggero, vaporoso. Di Stefano giocava per divertimento e Cruijff si trasformava in una gazzella con tre cuori. Oggi il calcio è un’altra cosa. Ronaldo e Messi sono stati costruiti in laboratorio al pari dei culturisti. Diego, possente e brevilineo, risultava il genio, una spanna al di sopra degli altri. Torniamo agli anni di Napoli. Non poteva uscire di casa, lo avrebbero sommerso. Per questo lo faceva solo di notte, camuffato. Provate voi a reggere il peso di essere Maradona 24 ore al giorno, un calciatore più famoso del Papa. Invece di allenarsi, il pomeriggio dormiva. Nessuno si sarebbe permesso di disturbarlo. Durante la settimana non aveva bisogno di correre. Era sufficiente che ci fosse la domenica, dopo un’infiltrazione per il mal di schiena. Ricordo un tiro liftato che neanche una mano esperta sarebbe riuscito a farlo, figurarsi il piede che segnò una traiettoria beffarda fin sotto la traversa del portiere esterrefatto finito ridicolmente dentro la rete. Maradona non rideva, dicevamo, ma soffriva. Era sul patibolo, con i nervi scoperti. Leale e apprensivo come i poveri. Quando ha smesso di giocare la cocaina, l’alcool, la bulimia lo hanno devastato. Viveva da reduce facendo comparse qua e là, tra Cuba, gli Emirati Arabi, l’Argentina e il Messico. Aveva un pessimo rapporto con il denaro, che non sapeva gestire. Rimase un sognatore, un bambino. Una volta disse “È fantastico ripercorrere il passato quando vieni da molto in basso e sai che tutto quel che sei stato, che sei e che sarai, non è altro che lotta”. Fernando Orsi, il portiere della Lazio degli anni Ottanta, mi disse: “Mi ha fatto goal di punta, su pallonetto, da calcio d’angolo, ma sono gli unici goal dei quali vado ancora fiero”. “Maradona non è morto. Dio ha dato al mondo il miglior calciatore di tutti i tempi. Vivrà per sempre”: è questo il ricordo di Zlatan Ibrahimovic. Parole pubblicate insieme ad una foto che li ritrae sorridenti in uno spogliatoio ai tempi in cui lo svedese militava nell’Inter. Qualcun altro, viceversa, pensa che il calcio sia finito il 25 novembre 2020.
Alessandro Moscè