L’impressione è che nella convulsa epoca della comunicazione in eccesso, dove ogni sapere è soppiantato da un linguaggio tracimato e planetario, si confondano i termini e il loro significato, tanto che il culturalismo e la cultura sono diventati, impropriamente, un tutt’uno. Leggo testualmente la definizione di culturalismo: “boriosa e sussiegosa ostentazione di cultura”.
Le strade, i non-luoghi, gli appartamenti, gli uffici: uno sciame di vita scorre nelle giornate di sempre. Spesso ci chiediamo dove sia alimentata l’esistenza che non si vede. Nella gioia, nel dolore, nel rancore, nell’indifferenza, nella generosità? Nell’invisibile, nella vita interiore moraviana, in quel di più che teniamo dentro, che non afferriamo nel viso di chi si interfaccia con noi. E’ dall’esperienza che nasce un’idea di cultura, non dalle schematiche e superate ideologie. E’ dallo studio, dall’approfondimento, dalla comparazione. La cultura è materia in fermento, non un concetto orecchiato. E’ nella voce che non esce, come quella della poetessa della ex Russia Elena Švarc (venuta a mancare nel 2010) che sto leggendo in questi giorni. A Valaam, un’isola sul lago Ladoga, questa donna non si immaginava in terra o in cielo, ma sospesa in un campanile, in alto, quasi potesse ascoltare una novella nel vento, un canto. Risuonava “silenziosa dentro”, nella vita che non si sa dove pulsi, eliminando perfino “l’embrione della coscienza” e covando l’inesprimibile. Ripudiava la furia, invocava la mitezza. L’avvizzimento della pelle e la vecchiaia le facevano paura. Avrebbe voluto uscire fuori di sé per osservarsi, per stringere la mano a Dio come fosse un confidente. E’ proprio la poesia impastata di vita che ci indica una strada non consueta, fuori dal culturalismo di chi ama i cortei pro e contro e rivendica una sorta di superiorità antropologica. E’ il principio di sopravvivenza che ci accomuna nella lettura e nella scrittura: un talismano, una ragione o un sentimento che non ha nulla a che vedere con gli scontri di piazza, con i centri sociali, con il fascismo e l’antifascismo, con la destra estrema e la sinistra post-sessantottina.
Søren Kierkegaard, nel suo Diario (1834/55) dava una prova mordace di ottimismo. “C’è in ogni uomo qualcosa che resiste più del molare più resistente, e una cosa a cui egli sta più attaccato che ad un braccio o ad una gamba: la voglia di vivere”. La brama, la stessa del santarcangiolese Raffaello Baldini, il grande poeta del secondo Novecento che inventò un vecchio personaggio che mandava a cagare chi “chiamava” la morte e che beveva il vinello al selz per brindare alla salute. Il suo buonumore saliva durante la partita a tressette in un bar o in un cinema parrocchiale.
Nella realtà si è dentro un sistema che si è rivestito da canile. Lo chiamano punching ball: qualcuno o qualcosa preso a pretesto per scatenare la rissa. Succede tra i tifosi di calcio come tra i politici, tra gli anonimi cittadini. Il comportamento stereotipato della televisione degli anni Novanta si è trasferito su Facebook, Messanger, Instagram, Twitter. Chi più urla più pretende la ragione, a costo di mistificare la realtà. I talk show che finivano con un accavallamento di voci contrastanti, domina sul web. Le verità sono tutte singole e si possono alterare senza un nucleo antisofisticazioni che intervenga. Frustrati, prepotenti, volgari, depressi, egoisti colpiscono duro per un tornaconto: la visibilità personale. Il punching ball è la trasmissione del disagio e dello smarrimento. E’ ferocia sfuggente, flebile. La guerra per primeggiare, per un fasullo principio di supremazia nel dire prima di altri in un contesto confuso e pressappochista.
Nel 1979, finite le ultime rappresaglie ideologiche, il sociologo statunitense Christopher Lasch, nel suo La cultura del narcisismo, scriveva anticipando un male che si sarebbe propagato a dismisura nei decenni successivi: “La fuga dalla politica, come viene definita dall’élite dirigenziale, può essere un segno che rivela la crescente riluttanza delle persone a partecipare al sistema politico nelle vesti di consumatori di spettacoli prefabbricati. Può non denotare affatto, in altre parole, un ritiro dalla politica, ma annunciare le fasi iniziali di una rivolta politica generale”.
Oggi, nella disaffezione, la rappresaglia si è insinuata nel linguaggio. Se una volta era criptico, asettico e oscuro, nel terzo millennio è volgare e grossolano. Una versione rappresenta la faccia opposta e uguale dell’altra. Il dibattito, nella piattaforma orizzontale, è appannaggio di tutti. Facebook, in particolare, consente di correre il rischio peggiore, cioè di alimentare lo sproloquio. Pertanto oggi le cose non vanno meglio di ieri. C’è chi, nella rivolta alla quale faceva riferimento Lasch, parla per allusioni, chi ad un destinatario perché intenda, chi scatena la trivialità, chi inquadra l’avversario come un nemico da abbattere. Raramente emerge un problema tangibile con una proposta sensata. Si giudica attraverso un wrestling rinnovato di giorno in giorno. Da una recente indagine è emerso che su Facebook si va anche per trovare persone simili, che si gratificano reciprocamente con i “like” e con opinioni avvalorate a vicenda. Il mezzo è trasformato in una via di fuga dal vis-à-vis, in un confronto al riparo dagli altri per ottenere consensi fasulli, meccanici. Nella piazza virtuale tutto è ammesso, pur di piacere. Fateci caso: su Facebook si sentenzia, non si discute. In fuga dalla socialità in un’epoca di dissoluzioni collettive dove non si aprono nuovi confronti ma si presta il fianco ad un metodo malato: il consumatore di spettacoli rinuncia al sistema e costruisce il suo spettacolo dentro casa. I Matteo Renzi e i Beppe Grillo si moltiplicano all’infinito in una massa incompatibile di voci sovrapposte. E’ questo il risultato di un culturalismo frenetico e ipervisivo.
Come riscoprire la cultura, dunque? Non si sente il bisogno di ascoltare lezioni, di rivolgersi ad un pezzo da novanta per capire di più. Lo stesso giornalismo culturale può essere recuperato, ma senza l’attendibilità delle voci rimane lettera morta. Il pubblico chiede attenzione, ma non dimentichiamo che il nodo sta nel culto maniacale per la notizia. La necessità dell’approfondimento, della ricerca, dell’analisi dovrebbe essere il fuoco del dibattito, ma di fatto non lo è. Ecco un esempio tangibile. Si discute spesso su come incrementare la scoperta dei libri letterari, la vendita di testi poetici e critici. Di fatto la nostra contemporaneità rischia di essere desertificata da una mancata attenzione a partire dal mondo scolastico che non si occupa degli scrittori del secondo Novecento e del terzo millennio. Non è un mistero che gli insegnanti non leggano e non conoscano affatto il loro tempo attraverso i loro autori, e dunque che non siano propensi ad incoraggiare l’immersione nella letteratura contemporanea intesa come esperienza di vita. Per questo bisognerebbe incoraggiare la realizzazione di recital, festival e premi letterari.
Alessandro Moscè