Verso Collegiglioni, sopra Fabriano, in Provincia di Ancona, appena dopo il cartello che indica un’autorimessa e un capannone dismesso, c’è una traversa non asfaltata. Nessuno potrebbe immaginare che da quel bivio quasi invisibile si snodi una delle più note incompiute infrastrutturali d’Italia. Oggi rientrerebbe nel disegno conosciuto come “Quadrilatero di penetrazione interna Marche-Umbria”, in particolare per quel che riguarda l’asse trasversale di collegamento tra la SS 76 e la SS 77, denominato Pedemontana. Il tratto di strada Fabriano-Matelica risulta finanziato con risorse regionali, la restante parte del tracciato non lo è e mancherebbero ancora, all’appello, decine di milioni di euro. Percorro più di dieci chilometri in auto tra tracciati e svincoli mai terminati, nonostante dalle nostre parti si siano avvicendati politici di primo piano (ministri, parlamentari, presidenti e assessori regionali). Un’incompiuta dagli anni Settanta che coinvolge in primo luogo Fabriano, quindi Matelica, Muccia, Sassoferrato, Urbino. Un’infrastruttura che taglierebbe l’entroterra facilitando i collegamenti, ma che è ridotta da decenni ad un rettilineo bianco, polveroso. Una strada morta, senza sbocco, interminabile, selvaggia, che potrebbe essere percorsa dai carri e dai birocci come nei primi anni del Novecento. Terreni incolti, buche e bocche di montagna, campi ridotti ad acquitrini durante le piogge invernali, spiazzi dove si appartano le coppie di notte, discariche a cielo aperto, ballatoi di fieno essiccati. Vecchi cantieri e costruzioni di fortuna ai lati, mostri di terra e fango, di pietra e sassi. Osservare questi posti isolati, separati dalla città, consente di ritornare indietro nel tempo, agli accampamenti durante il secondo conflitto mondiale, quando partigiani e repubblichini si cercavano e si nascondevano nell’anfiteatro collinare. O a quando i contadini credevano che i cani si trasformassero in demoni e si posassero sulla pancia delle persone per non farle dormire e per procurare loro i peggiori incubi. L’aria pungente e il sole basso, accecante di luglio, lascia l’atmosfera stagnante, percorsa da un’infinita attesa. Un’area della catena pre-appenninica, a ridosso di Fabriano, sembra una terra occasionale di residuati. Cinghiali e caprioli cercano il cibo avvicinandosi alle porte dell’abitato, ma non trovano né pollame, né animali domestici. Non mancano, sinistri come fantasmi, i barbagianni. Qua e là spuntano il leccio e la quercia, ma le case non ci sono. Si racconta che nel primo millennio si venerasse Giove Appennino e che la gente avesse dedicato dei templi, ormai distrutti, ad un dio pagano. La Pedemontana rimane uno scorcio sterrato, svilito ai piedi della dorsale marchigiana. Proseguo nel tragitto: nessun rustico, nessun casale, solo dirupi sprofondati in un’incuria desolante. Per un breve tratto si rincorrono le viti rampicanti intorno a dei tralicci in legno in un appezzamento di proprietà privata e raggiungibile dal fondovalle. Ogni due, tre chilometri un viadotto sostenuto da piloni in cemento congiunge la campagna retrostante di Cantia e San Donato. Gli avallamenti sono rischiarati come in una cartolina di matrice toscana. Se si togliessero le infrastrutture moderne, il paesaggio sarebbe quello di Piero della Francesca, con un fondale policromo al quale mancherebbe solo una volta o un’elaborazione prospettica. La maledizione della Pedemontana continua. Nessuna finanziaria, nessun governo ha preso decisioni definitive. Le ultime notizie di pochi giorni fa ci mettono al corrente che sarebbe avvenuto il via libera del Cipe al progetto, ma la popolazione non segue più la tempistica ufficiale nel trionfo dello spreco di denaro pubblico. Negli ipotetici lavori è prevista la realizzazione della bretella di collegamento tra la SS 77 e la SP 209 Valnerina. La sezione tipo di progetto contemplerebbe una carreggiata unica larga 7,5 metri, formata da due corsie da 3,75 metri e fiancheggiata da due banchine pavimentate larghe 1,5 metri ciascuna. La piattaforma stradale avrebbe una larghezza complessiva di 10,5 metri. Lungo la direttrice che porta direttamente a Sassoferrato, nessuna novità. Ed è qui che giro ancora, frastornato da una sciatteria irreale. E’ impossibile proseguire ancora perché la confluenza si chiude ad imbuto e la vegetazione interrompe il passaggio. Le fronde degli alberi si intrecciano e le ombre proiettano disegni che assumono le sembianze di scheletri umani. Si sente appena il frastuono dei torrenti che confluiscono nell’Esino in prossimità di Frasassi. I dintorni sono costellati da un orizzonte puntellato: il monte di Nebbiano ad est, il monte Strega ad ovest, il monte Catria a nord-ovest. Una terra che non muore, direbbe Raul Lunardi, lo scrittore sassoferratese che ha esordito nel 1952 con il romanzo Diario di un soldato semplice pubblicato nella collana “I Gettoni” dell’editore Einaudi e diretta da Elio Vittorini. Dal 1955 al 1960 è stato redattore del Bollettino di Informazioni Culturali del Ministero degli Esteri. Nel 1982 fu finalista al Premio Campiello con il romanzo Alessandria. Per la sua lunga attività culturale è stato insignito del premio per la Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Raul Lunardi è morto a cento anni nel 2004 e ha attraversato l’epoca dei fattori e dei poderi, delle numerose famiglie contadine e dei metalmezzadri, di chi camminava ancora con le scarpe di cartone. Tempi e luoghi sono anacronistici, come i riquadri della verde natura che scendono fino a questo tragitto in secca, improduttivo.
Alessandro Moscè