MIA PAGINA LEGGERA: MARIO CAMPANACCI

Avevo tredici anni quando fui aggredito da un sarcoma di Ewing al bacino. Una malattia rara, che colpisce pochi giovanissimi (meno di cento individui l’anno, in Italia, prevalentemente di età compresa tra i sei e i quindici anni), e che non riscontrava casi di guarigione, secondo la casistica dell’Istituto Rizzoli. I sarcomi di Ewing si localizzano in aree diverse del corpo, ma hanno un’origine comune e caratteristiche simili dal punto di vista istologico. Provengono infatti da cellule di origine neuroectodermica, cioè da quei tessuti che, nell’embrione, danno origine al sistema nervoso. La maggior parte dei sarcomi di Ewing si sviluppa a livello delle ossa, in particolare in quelle del bacino, della regione toracica e delle gambe. Se il male colpiva le ossa lunghe si procedeva con l’amputazione dell’arto, mentre se si sviluppava nel bacino le possibilità di sopravvivenza si riducevano al minimo. Fui ricoverato d’urgenza all’Istituto Rizzoli di Bologna, il 16 agosto del 1983, direttamente da un ospedale di Ancona dove avevo subito un primo, inutile intervento. Mi avevano dato pochi mesi di vita. La struttura del Rizzoli è incastonata in un complesso monumentale monastico dallo straordinario valore architettonico e ospita opere d’arte di oltre quattro secoli: il chiostro ottagonale affrescato da Ludovico e Paolo Carracci e da Guido Reni, l’ex refettorio dei monaci ornato da Giorgio Vasari, la superba biblioteca affrescata nel Seicento da Domenico Maria Canuti. Il Rizzoli ha avuto la sua originaria sede nel complesso monastico di San Michele in Bosco, ubicato sui primi colli a sud di Bologna. Il monastero è un organismo di pietra che colpisce per l’eleganza e la misura delle forme, perfettamente legate tra loro da un insieme spaziale, da un senso di chiusura e di riservatezza tra la chiesa, il campanile e i chiostri. La chiesa è una costruzione rinascimentale con reminiscenze romaniche e gotiche che guardavo con gli occhi all’insù preso da un senso di spaesamento che saliva dalle gambe alle braccia. La facciata, il portico, il campanile e l’abside erano un involucro di perfetta semplicità. Tra questi meandri si aggirava Mario Campanacci, il più grande ortopedico italiano, un pioniere di valore internazionale nella cura dei sarcomi, che arrivava al mattino presto e se ne andava sempre di notte. Mi dissero che venne consultato dagli americani quando a Ted Kennedy junior diagnosticarono un osteosarcoma. Salvarono la vita al figlio del senatore Ted, ma non l’arto. Mario Campanacci operava anche all’estero ed era considerato una celebrità. Svampito e assorto, burbero e gentile, si presentava come un concentrato di antinomie. Occhi lunari, capelli bianchissimi, distinto, è morto a meno di settant’anni dello stesso male che aveva combattuto quotidianamente. Il primo giorno che arrivai mi guardò con scetticismo. Sono convinto che mi considerasse già spacciato. Dopo l’intervento chirurgico mi confidò che ero un colosso, stringendomi la mano. Dopo dieci anni, nell’ultima visita di controllo, affermò queste esatte parole: “A quale santo ti sei raccomandato? E’ incredibile, ti abbiamo restituito al mondo. Hanno perfino trafugato la tua cartella, perché con te tutti ci abbiamo capito ben poco. Gli americani ti hanno fatto diventare un caso clinico”. Ho fatto una personale ricerca. Uno scrittore vive di curiosità ostinata, perché almeno l’ossessione della memoria sia inguaribile. Ho scovato un testamento spirituale di Mario Campanacci, scienziato cattolico che chiese a quale santo mi fossi raccomandato perché credeva, con ogni probabilità, nei miracoli non solo scientifici.

“Un anno e mezzo fa i medici e i loro meravigliosi strumenti diagnostici mi trovarono un cancro del pancreas. Oggi mi restano alcune settimane prima di fare ritorno alla casa del Padre. Le parole più belle e più vere per descrivere la morte della carne si trovano nei Vangeli: via, verità e vita.
Il lago è deserto. Il sole è appena tramontato. Gesù e i suoi sono accanto alla barca. «Venite, perché si è fatto sera. Passiamo all’altra riva». I due discepoli di Emmaus con lo sconosciuto incontrato per strada, giungono nelle prime case del paese dove si sono accese le prime lucerne. «Resta con noi, Signore, perché si fa sera».
In questi giorni, se cammino per strada vedo la folla dei “sani”, e tra questi cerco i più miseri, o mi figuro con l’immaginazione i più diseredati, poveri, reietti sparsi nelle strade di tutto il mondo. Se fosse possibile passare questo calice da me a uno di loro… ma no, Signore, non lo vorrei, perché questo è il tuo disegno, pensato prima della creazione. Sia fatta la tua volontà, così in cielo come in terra: non lo diciamo ogni giorno nella nostra preghiera?
Questa mia malattia, che è la cosa più naturale del mondo, che condivido con milioni di fratelli e sorelle il cui dolore è certamente molto più grave del mio, la considero un dono e una chiamata. Quale grande e misterioso dono è la chiamata del Signore! Quando Gesù, all’inizio della sua missione camminava lungo la riva del lago, chiamò quattro pescatori. Perché loro quattro? Ecco il mistero. Facendoli pescatori di uomini, li costituì messaggeri, li fece entrare per tutti i giorni della loro vita nella pace e nella gioia di vivere e servire, preparò loro un posto per l’eternità presso il trono del Padre. Ecco il dono. Li destinò al martirio. Ecco la via, la porta stretta. Donare la propria vita per tutti, è l’amore più grande.
Questa mia malattia, nate da poche cellule un po’ scapestrate, è dunque un dono del Signore, un dono e una chiamata, per me. Egli mi ha scelto, da prima della creazione. Per questo ti rendo grazie e ti lodo, Signore. Quando ero “sano”, mi riusciva difficile la preghiera di lode, che pure è la prima e più pura forma di preghiera. Pregavo più facilmente nel momento del bisogno, della paura, delle difficoltà. Soltanto ora ho cominciato a capire e a lodare Dio. Prima di tutto ti lodo, Signore, per aver creato la terra, con la sua luce, stagioni, erbe e fiori. E ancora ti lodo per aver rivelato queste cose ai piccoli piuttosto che ai sapienti. E con migliore cognizione perché basata sui sensi miei, ti lodo per le innumerevoli e singolari grazie che mi hai donato. Farmi nascere in una famiglia come la mia, la famiglia che chiunque desidererebbe avere. E per avermi donato da sempre l’amore, il rispetto e la dolce consolazione della religione cattolica”.

(Dalla rivista bolognese “I Martedì”, 3/1999, p. 47)

Mario Campanacci ha esortato la vita, mentre moriva, il 16 gennaio 1999, a soli 67 anni. Si fece ricoverare al quinto piano del Rizzoli, nella prima stanza della divisione oncologica, tra i suoi pazienti. Non ha detto nulla della sua professione. Si è rivolto a Dio, semplicemente, umanamente. Ha scritto della chiamata del Signore, del dono della famiglia. Ha spronato se stesso come farebbe un sacerdote, lui che amava parlare con i frati e che salvava le vite umane. Anche la mia, che ero un caso clinico disperato. Grazie, professore.

Alessandro Moscè

 

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