CHI ERA GUIDO GOZZANO?

Guido Gozzano è stato sovraimpresso da un secolo di equivoci critici che ancora durano, da approssimazioni ricettive, ricerche di senso mai pienamente condivise, riprese e scartate, rivisitate, tanto da spingere a dire: chi è stato, in verità? Il suo nome viene associato alla corrente decadentista del crepuscolarismo come strumento conoscitivo e luogo di poesia. Di famiglia borghese, sappiamo bene che nacque nel mito di Gabriele D’Annunzio, del dandy che alimentava una sorta di sublimazione individuale attraverso l’estetica della parola scritta. Successivamente Gozzano si rivolse ad una dimensione diversa da questo circuito ispirativo: la poetica di Giovanni Pascoli, amatissima, con il suo intimismo, lo avvicinò ad una categoria, quella dei crepuscolari, che seguiva uno spegnimento emotivo, un abbandono di sguardi e pensieri. Guido Gozzano morì a soli 32 anni, nel 1916, a causa della tubercolosi che lo affliggeva da tempo. Iscrittosi alla facoltà di Giurisprudenza non terminò gli studi, preferendo frequentare i circoli di una città attiva, fervente che gli permise di respirare un clima internazionale grazie alla lettura di Leconte de Lisle, Henri de Régnier, Charles Baudelaire, Paul Verlaine, Sully Prudhomme, Francis James, Francois Coppée, Jules Laforge, George Rodembach, Gustave Kahn. Il suo maestro prediletto fu il poeta, aforista e critico Arturo Graf. Gozzano occupa un ruolo determinante nella ripercussione del primo e del secondo Novecento italiano per la capacità di manipolare e cambiare linguaggio da buon manierista (fu un cultore di citazioni) tentato dall’estraniamento, anche e soprattutto ironico, dopo aver sondato un’arte condizionata dal procedimento della parola fulgida, perfino ornamentale, in un percorso creativo non propriamente non coerente. Ecco perché è un autore equivoco: liberty e simbolista, crepuscolare in una società confusa, sfaccettata. Prosodico e sentimentale, Gozzano fu apprezzato da Marino Moretti, Aldo Palazzeschi ed Eugenio Montale. Venne preso in considerazione dallo sperimentalismo, pur dovendo sopportare le “ingiurie”, in particolare, di Giovanni Papini e Federigo Tozzi. Renato Serra annotò “quell’aria di dare come nuove e commoventi tutte le cose tristi e mediocri”. Il suo eclettismo lo rese cantore, giornalista, scrittore di favole, di reportage dall’India, di epistolari e cronache, di sceneggiature per il cinema. L’editore Avagliano (nella collana il Melograno) ha dato alle stampe Tutti i racconti (2017, a cura di Flaminio Di Biagi), in cui si fa strada la vocazione del novelliere raffinato e ironico. Si tratta di un libro sull’ultimo Gozzano, quello meno conosciuto e riconosciuto. La sua scrittura appare divertita e umoristica e la prosa una giocosa analisi parodica della società borghese d’inizio Novecento, dei cui rituali Gozzano si fa osservatore a tratti malizioso e irridente. Moderno, inquieto, ma liberato dal lamento, con uno spirito fraterno, come riportato nel necrologio da molti attribuito ad Antonio Gramsci: uno scrittore che “sedendosi a tavolino non ha imboccato gli oricalchi dei furori eroici dimenticando la storia”. In questi racconti ci sembra che l’elemento centrale racchiuda una condizione vincolante. Il poeta e il narratore tolgono quel velo di predestinazione alla sofferenza, al male, al destino segnato, all’agonia dell’esistenza oscillante in un percorso saturo. Gozzano scrive parodie, in fondo, per impadronirsi della realtà e per evitare di cadere nella retorica della beffa (forse anche come reazione al suo stato di salute). Siamo in una situazione di grazia che si introduce nell’animo umano con epifanie e leggerezza di ragionamento. Queste pagine non hanno niente di cosmico e ogni identità, più che ogni memoria, è fenomeno, suono, spazio, scintilla che scuote. L’ironia traspira disincanto specie quando l’autore cerca l’assonanza nel tono colloquiale con l’altro. “Cose buone di pessimo gusto”: un espediente meditativo nell’attività umana che si individua come pietra angolare della narrativa e non solo della poesia. Gozzano è un emblematico raccoglitore del “ciarpame reietto”, un immaginifico in cui permane l’esperienza della fantasia (per esempio dell’India che aveva visitato) che scavalca la realtà. I corvi, con il gracidio monotono, vengono considerati esseri che contano più degli indigeni “sottolineando il silenzio”. Viene compiuto quel salto nella distanza dalle cose, quel viaggio del pellegrino tra squarci metaforici e invenzioni descrittive. Il che non vieta di tentare delle “fantasie di avvicinamento”. Nei racconti si catalizza l’attenzione su oggetti e sogni, su una stagione interpretativa incorruttibile, sul desiderare di stampo fanciullesco. Marziano Guglielmetti, nell’introduzione al Meridiano Mondadori Tutte le poesie (1980), sottolineava un aspetto altrettanto interessante dell’opera tutta di Guido Gozzano: “La verifica rende subito edotti della problematicità di ogni scambio in Gozzano tra ragioni della letteratura e istanze della vita. Inoltre suggerisce una chiave d’interpretazione utile, per intendere che l’atto di scrivere non rispecchia in Gozzano l’atto di esistere. Tendenzialmente la pratica della letteratura esclude per lui qualsiasi riferimento diretto alla vita”. La sua inerzia contemplativa gli permise, in altri termini, di attraversare la realtà da fuori, senza partecipazione attiva, con la saturazione della forma e un atteggiamento delusivo. Le raccolte di fiabe, alcune delle quali vanno sotto il nome I tre talismani, rivelano una tensione anti borghese, il disprezzo della ricchezza e una messa a punto del sentimento di generosità. Lo stesso può dirsi nella favola La danza dei nomi, dove la figlia della matrigna cresce perversa, mentre la figlia del vedovo ha sentimenti di bontà fino a redimere l’altra. Si pensi anche alla Leggenda dei sei compagni, in cui Gozzano narra la vicenda di tre fratelli che partono da casa in cerca di fortuna. I primi due falliscono per egoismo e inadeguatezza ad adattarsi. Il terzo, per altruismo, riesce a fare fortuna aiutato da tre uomini che aveva soccorso. Gozzano sembra dare concretezza ad una situazione immaginifica mediante una reificazione: nella matassa delle storie emerge la distinzione tra bene e male, un certo divertimento compiaciuto. Lo stile icastico, asciutto, investe gran parte dei racconti dove il malumore si spegne nella trasparenza divertita. Infine c’è il confine con l’altro viaggio che caratterizza l’opera in prosa: la morte. Si sente l’influenza di Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso e Leopardi. Si è detto del non vitalismo appassionato della sua scrittura e dell’alienazione, nella letteratura, della vita personale. Il viaggio in India del 1912 è propiziato dalla convinzione di affrontare un trattamento terapeutico contro la malattia ai polmoni. Guido Gozzano giunse a Bombay e a Kandy, sull’isola di Ceylon. Il libro sull’India, i cui resoconti vennero pubblicati preliminarmente su “La Stampa”, denota la riflessione sul senso della finitudine e del sacro, pur avendo da ragazzo abiurato il cattolicesimo, la patria e Dio. Gozzano non abbraccia una confessione religiosa, come alcun credo positivista, ma pensa all’esistenza di uno spirito intelligente, ad una visione panteista che lo avvicinò a Francesco d’Assisi, che amava per il suo essere spoglio, serafico e con uno spirito naturalista. Voleva scrivere una copione cinematografico sul santo di Assisi, ma il suo precario stato di salute glielo impedì (prima di morire, però, ricevette i sacramenti). Guido Gozzano è una voce debole e forte, è stato sintetizzato un po’ troppo frettolosamente. Senz’altro un giovane che temeva la vecchiaia e la morte, orgoglioso quanto duttile. Uno scrittore singolare, sognatore sarcastico e sentenzioso. “Socchiudo gli occhi, estraneo / ai casi della vita. / Sento fra le mie dita / la forma del mio cranio… / Ma dunque esisto! O strano! / Vive tra il Tutto e il Niente / questa cosa vivente / detta guidogozzano!” (da La via del rifugio, 1907). Tutto in Gozzano è poco materico, ma con un sapore, un colore e un’espressione allietata.

Alessandro Moscè

 

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