Il capitalismo e il possesso irrompono da demoni, così come l’impossibilità relazionale dell’uomo del capitale con l’uomo del sogno. Nel volume Il leone e la volpe (Einaudi 1995) lo scrittore Paolo Volponi riflette: “Le società modernizzate sono basate sull’esaltazione dell’individuo, sulla sua atomizzazione; e concepiscono solo riduttivamente un’etica: quella edonistica e tecnologica, col successo individuale sulla natura e sugli altri uomini”. La dicotomia dolcezza-furia determina il risvolto impossibile di Volponi: conciliare l’uomo della macchina con l’uomo che sappia programmare uno sviluppo razionale. La caduta del ponte di Genova non è solo un fatto di cronaca luttuoso con le conseguenze che comporta sul piano critico. E’ l’emblema della fine dei tempi che hanno contrassegnato il secondo Novecento italiano. Il segno (sogno) di un progresso inesauribile, di un capitalismo e di un benessere che avrebbero riscattato tutte le classi sociali eludendo la distinzione tra borghesi e proletari, è stato cancellato. Ho letto che gli stessi abitanti della città ligure, negli anni Settanta, accettavano di vivere sotto i piloni della campata del viadotto Morandi perché si sentivano parte di uno sviluppo perfezionato con un’autostrada che grattava il tetto delle abitazioni. A vedere quel ponte sospeso in aria si ha l’impressione di un quadro surrealista, più che di un’immagine estratta dal fotogramma di un telegiornale. Con il crollo è venuto meno un baluardo del Novecento. L’era tecnologica non ha migliorato la società e l’Occidente è stato annientato dall’idea venefica di controllare e pianificare il mondo. Il filosofo Zigmunt Bauman contestava l’agire umano nella pretesa di attivare un ampio spettro di sistemi biofisici. L’uomo non è riuscito a prevenire il futuro delle condizioni di vita sul pianeta, ma evidentemente non è stato in grado neppure di capire che il progresso si logora come il cemento armato e il calcestruzzo. In un secolo è cambiato il sistema di rapporti tra l’uomo e l’ambiente e tra l’uomo e la modernità. L’innovazione e la crescita si sono arrestate e il progresso ha lasciato lo strascico di una regressione che scombina la politica, la società, l’economia e la crescita in termini di profitto. Quel simbolo di fierezza, il Ponte Morandi, è oggi il simulacro della crisi più nera. Nel 1967 visto come una maestosa costruzione, adesso come simulacro della catastrofe. Come tornare indietro per infondere sicurezza in una popolazione, quella italiana, perplessa e confusa? Come ripartire da capo? Come affrontare le nuove povertà, sempre più in espansione? Come dare impulso alla crisi industriale e fermare l’arrembante corsa della finanza? Se da una parte un certo nichilismo e l’eterno presente consentono di vivere senza futuro, è dal recupero di un’etica individuale che si poggeranno le basi del domani, perché il buon senso diventi costume, consuetudine. Il bene immateriale avrà un suo fondamento contro ogni profezia di cataclismi. La ricchezza dovrà essere meno discriminante e distribuita più equamente, su scala globale, distinguendo tra beni necessari e beni superflui affinché il rovello utopico di Volponi, sempre più attuale, sia praticabile. Scriveva Svetlana Aleksievič in Preghiera per Cernobyl (e/o 2015): “Cernobyl è un soggetto alla Dostoevskij. Un tentativo di giustificazione dell’uomo. E se fosse invece tutto molto più semplice? Se fosse sufficiente entrare nel mondo in punta dei piedi e fermarsi sulla soglia?”.
Alessandro Moscè