ANCHE DIO E’ INFELICE

Riordinando confusamente la mia libreria ho riletto in questi giorni un libro di David Maria Turoldo, sacerdote, teologo, poeta, saggista: Anche Dio è infelice (Piemme 1991). Dio è connaturato ad un elemento strettamente umano, è “la verità senza ragione”, “l’illimitato”, “il tutto e il niente”, “l’impossibile”, “l’immaginabile”. Turoldo, definito la voce inquieta della Chiesa, “disturbatore delle coscienze”, ma anche profeta, fa impressione per la sua lungimiranza. Venticinque anni dopo la pubblicazione di questo zibaldone, con l’inserzione di alcuni testi poetici, sconfessa tutti i buoni propositi di allora. Il libro è un regesto che prevede ciò che sarebbe accaduto specie nelle storie banali e di pubblico dominio dei social, nel protagonismo del web (ovviamente i nuovi strumenti di comunicazione non erano ancora nati). Turoldo, uomo intelligente, parlava alle masse. Anche Dio è infelice: perché questo titolo? Perché nell’uomo non c’è “misericordia” (la parola tanto cara a Papa Bergoglio). Viene stigmatizzato l’atteggiamento di colui che Turoldo chiama levita, come nell’Antico Testamento: cioè il ministro del tempio. Da servitore del popolo che soccorre i poveri, immune dalle cupidigie, il levita è una figura autoreferenziale (mai come adesso). Non più espressione di umanità, ma un io chiuso in sé. David Maria Turoldo parla di vanità e cinismo, di vuoto e nulla. Erano gli anni Novanta e le cose sono decisamente peggiorate. Le lacrime di Dio e l’infelicità sembrano andare di pari passo con il silenzio di Dio, con la teologia apofatica. Fu silenziosa la creazione, la presenza di Cristo nei Vangeli, quella della Madonna, di Giuseppe. Un silenzio in cui, però, parlano le parabole, le riflessioni, come osserva Geno Pampaloni nella prefazione. Il silenzio, oggi, è introvabile: tutti parlano o urlano, vogliono imporsi. Sono quelli che Turoldo chiama gli “infaticabili tessitori delle ragnatele”. La buona novella è ancora offerta con discrezione. Discrezione, già: una parola annullata dal nostro vocabolario. Le strade sono l’arteria della salvezza, continua Turoldo, ma saremo mai in grado di capire Dio, si chiede? “Tu dovevi essere felice / e poi perduto. / Così sei venuto a cercare / i cibi delle Tue creature maledette, / a farti / carne di peccato, mentre Ti donavi”. David Maria Turoldo parla direttamente a Dio, a Colui che non vede. Il suo Dio è appassionato, come lo è la poesia del sacerdote nato in Friuli che piaceva a Luciano Erba, Andrea Zanzotto, Franco Scataglini, Alda Merini e a tanti altri. Canta la vita, ma scorge l’infelicità di Dio da lontano, l’incompiutezza dell’uomo. Canta l’universo e ama anche la morte, parafrasando un verso, quando si rivolge alla madre in versi splendidi: “Ho lasciato i nostri campi, mamma, / quella pianura vasta e taciturna / dal colore dei tuoi capelli / biondo come le vigne d’autunno”. Il prete dà del tu all’ateo, al nero, all’uomo o alla donna che non conosce: dialoga, ammonisce, invita, ascolta, perdona. L’uomo ha sempre una voce, ma la sua strada è buia: forse direbbe questo nel 2017, ma con un’innata capacità di “spendere” la vita per l’altro. “Né alcuno che possa dire / che nome porta o chi sia! / E tutti nel feroce / invincibile sospetto/ l’uno dell’altro…”. David Maria Turoldo è stato un portatore di predicazione. La poesia una testimonianza di vita, la sua seconda parola dopo quella della Chiesa. Ma spesso c’era una convergenza, una vera e propria sovrapposizione benefica nella sorgente della sua scrittura.

Alessandro Moscè

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