Ha ragione Alberto Asor Rosa, quando suggerisce un secolo in più per la scuola e non un anno in meno (il liceo in quattro anni, stando alle recenti proposte). Gli studenti che affrontano la maturità non conoscono il Novecento, perché i programmi affastellati non consentono di mettere mano al secolo breve. Chi aveva letto Giorgio Caproni, quest’anno? Molti non lo avevano neanche sentito nominare, come era successo per Claudio Magris nel tema di maturità del 2013. Viviamo una contemporaneità liquida, avrebbe detto Zygmunt Bauman, priva di quell’omogeneità che colga i bisogni, le crisi, il credo della comunità. Il soggettivismo di oggi, bulimico di consumismo, è senza passato, ingessato in un presente che si dissolve in un riquadro dietro l’altro, come uno zoom che passa velocemente da una stanza all’altra. Vivere di liquidità vuol dire certamente non conoscere gli intellettuali del Novecento. Alberto Asor Rosa, su “Repubblica”, afferma che “bisogna aggiornare i programmi scolastici e portare la storia fino alla globalizzazione; consentire di leggere e approfondire, al pari di Cavalcanti, Primo Levi, Gadda, Pasolini, Calvino, de Céspedes e Ginzburg, e perché no, Tabucchi e Del Giudice”. Non siamo preparati per interpretare il tempo che viviamo perché l’impoverimento della formazione mina le fondamenta della nostra cultura pressappochista. Il sapere umanistico serve eccome, sviluppa uno spirito critico. Quattro anni di liceo più uno di educazione e investigazione dell’ultimo secolo può essere una soluzione funzionale. Asor Rosa si sente un uomo del Novecento, di un secolo definito di potenzialità e promesse, di smentite e disillusioni, attraversato da una vitalità che rischia di non avere il terzo millennio. La prepotenza della società edonistica esclude ogni forma di approfondimento personale. Il Novecento è già scomparso, o forse non è mai esistito negli scrittori, nei poeti, nei critici. Viene meno anche la conquista sociale, la scoperta tecnologica, soppiantata di giorno in giorno da fenomeni nuovi (l’immigrazione incontrollabile o un nuovo telefonino dotato di molteplici funzioni che non aveva il precedente). Siamo in un secolo di dimenticanze. L’amnesia del presente ci toglie anche il domani. Il processo di liquidazione di ciò che siamo si annida nel controllo del tempo immediato e sfuggente. Siamo inafferrabili, come quei versi di Caproni che non ricorderà nessuno. Deregolamentazione e flessibilità portano ad un ammasso di comunicazione incerta. L’interazione è sempre più povera, il Novecento sempre più lontano. Dietro di noi c’è la malattia della memoria, un Alzheimer collettivo. Siamo un insieme di episodi mal collegati, sempre più distanti, sfumati, senza più date, senza più connessione. Forse senza più sentimento.
Alessandro Moscè