GUBBIO E IL PITTORE CHE NON SI VEDE

Racconto estivo

Si respira un’aria antica salendo lungo le scalette sconnesse di Gubbio, dentro la cinta muraria, affacciandosi da un portone o da una finestra stretta, lunga. Il sole di fine estate filtra da tutte le parti e in posizione obliqua, come una lancia che colpisce angoli e muri alternando ombre crepuscolari allargate a macchia d’olio nella città di pietra, a ridosso della montagna. Questa è la terra integerrima di Cante Gabrielli, che condannò l’Alighieri per brogli con una sentenza emessa seguendo lo ius murmurandi del popolo, ma quasi nessuno lo sa. Il silenzio è irreale, tanto che l’area potrebbe sembrare disabitata, a tarda sera. Sulla Piazza Grande Alvaro passava con la bicicletta, da ragazzino, prima di scendere lungo il corso. I finestroni della sua antica casa avevano e hanno ancora le stesse inferriate dei manicomi. Qualche vecchio novantenne sopravvissuto si affaccia e ritira subito il volto sfatto per non farsi vedere, quando dicono che arrivi. Alvaro è deceduto, ma continua ad aggirarsi per le vie amene con le sue pantofole rosso scarlatto e una vestaglia sgualcita. Piccolo, con un portamento fiero, fumava in continuazione e diceva di essere un uomo ineffabile. Orgoglioso, di poche parole, nette, sentenziose. Citava a memoria alcuni passi della Divina Commedia che avevano a che fare con Gubbio: “Oh, diss’io lui, non se’ tu Oderisi / L’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte / Ch’alluminare è chiamata in Parisi?”. Si incantava a guardare la parte orientale della piazza, quella con la costruzione trecentesca divisa in varie sezioni, le cui facciate danno sulla medievale via Baldassini. Alvaro faceva il pittore, disegnava, incideva. Giocava a scacchi nei bar e scommetteva sulle partite domenicali del suo miglior Perugia d’annata, quello del secondo posto nella stagione 1978-’79. Il grifone dell’allenatore Ilario Castagner, di Bagni, Vannini e Speggiorin, che non perse neanche una partita, ma che non vinse il campionato. Alvaro aveva dei riti scaramantici che gli consentivano di proteggere la squadra e di allontanare lo spettro della sconfitta. Disegnava spesso il campo da gioco, lo stadio Renato Curi. Ma la sua visione preferita, naturalmente, era lo scenario eugubino. Dopo la frugale cena delle sei del pomeriggio, la crescia cotta sulla pietra infuocata e impastata con farina, acqua e sale, posizionava il cavalletto e la tela in Piazza Grande e creava ogni volta il suo mistero. Nelle tasche aveva delle noccioline che sgranocchiava durante le pause. Usciva vestito di tutto punto, con la camicia celeste a maniche larghe. In testa un cappellino blu circolare come quelli che piacevano a Picasso. Il panorama, davanti ai suoi occhi cerulei, era mozzafiato, mentre l’edificio imponente, sulla destra, il Palazzo dei Consoli, lanciava laghi di oscurità sul suo volto e sul versante opposto. Per Alvaro la componente essenziale della visione erano i cieli, non un unico cielo. Cioè un insieme di riquadri che cambiavano forma e colore rapidamente. Non firmava le sue opere, che rimanevano paesaggi senza nome. A settembre il cielo era liquefatto, azzurrato, come se la delicatezza del pennello dell’artista lo avesse disteso rendendolo più chiaro, quasi turchino. La notte la trapunta di stelle ornava un buco nero, sospeso lontano, lontanissimo. Il cielo preferito di Alvaro era quello cinerino di novembre. La foschia scuriva l’atmosfera, come la pioggia. Dietro la montagna un mare capovolto e ondulato soffocava l’onda delle nuvole, la vastità di un orizzonte senza punti fermi e definiti. La vallata veniva dipinta come un arredo, una raffinata decorazione del Duecento. La Piazza Grande diventava una casa all’aperto. Qualcuno si avvicinava ad Alvaro e lo interpellava. Gli chiedeva perché non si cimentasse nella produzione della ceramica o perché i suoi quadri fossero, più o meno, sempre gli stessi. O perché non ritraesse le persone, uomini, donne e bambini. O ancora, perché non si addentrasse nel Palazzo dei Consoli, oltre quelle conci in pietra, salendo i gradoni per accedere alla collezione archeologica, orientale, tra i reperti d’eccezione. Alvaro non raffigurava neanche l’anfiteatro romano, quel piccolo colosseo che lo aveva sempre impressionato, o la basilica di Sant’Ubaldo, che lasciava scorrere i secoli come fossero anni, addensandoli nelle costruzioni possenti simili ai castelli. No, Alvaro rimaneva lì, in Piazza Grande, guardiano del suo stesso posto e della sua Gubbio chiusa in un cerchio concentrico. Da quando se ne è andato, e ormai sono più di trent’anni, Gubbio è orfana di un nume tutelare. Ma nel terzo millennio, qualcuno si chiede ancora se sotto la Torre di Porta Romana compaia davvero tutte le domeniche dopo l’orario di chiusura delle partite. Se sia così veloce a dileguarsi anche in pantofole, o se la luce elettrica produca strane apparizioni alimentando la fantasia patologica dei più anziani. Ma non è una novità che da queste parti, provenendo dai Sibillini, nei monasteri distrutti dall’usura del tempo, si organizzino novene e veglie di preghiera. A volte solo per propiziare la pioggia e per ringraziare Dio del buon raccolto. I monaci camminano in fila con le fiaccole accese e si sente cantare. Insomma, i morti non sarebbero stati seppelliti per sempre. Uscirebbero dai cimiteri come Alvaro, che assomigliava ad un frate per la ritualità del suo fare che non ammetteva deroghe. Qualche eugubino dice che quelle tele, di notte, si illuminano, come fossero attraversate da un bagliore divino. Il giorno dopo c’è sempre il sole e le cose vanno per il meglio. I paesaggi di Alvaro sono disseminati dappertutto, specie tra Umbria, Marche e Lazio. I quadri li vendeva a poco prezzo o li regalava. Durante il terremoto del 1986 una ragazza incinta ne strinse uno alla pancia. La casa, pur traballando, non crollò. Era stato un puro caso o l’influsso di un defunto, di un morto ancora vivo, aveva sparso il sale della misericordia? Qualcuno ricorda bene che Alvaro era solito ripetere una frase: “Se sei consapevole della morte, essa non arriverà come una sorpresa, non ne sarai preoccupato. Percepirai che la morte è esattamente come cambiarsi d’abito e di conseguenza, in quel momento, riuscirai a manifestare la tranquillità”. Lo scrisse il Dalai Lama e Alvaro pensò, dopo aver letto l’aforisma in un libro regalatogli da un acquirente, che lo spirito è immortale, come l’anima, come la mente, come tutto ciò che non si materializza. Il corpo si ricrea anche nei vuoti d’aria. E quella brezza che tagliava in due la piazza altro non era che suo padre Ferdinando, che veniva a trovarlo dall’aldilà il giorno del compleanno, il 28 dicembre. Perché dunque, non dovrebbe essere vero che i morti camminano e parlano, che dialogano e consigliano? Alvaro teneva in casa delle candele, le accendeva prima di coricarsi. In qualche cassetto ci sono ancora i mozziconi di cera, come le vecchie sigarette senza filtro. Quell’abitazione non è stata più aperta, ma gli inquilini del piano di sopra giurano di sentire rumori, voci, suoni. Esiste anche ciò che non si vede, che non si tocca. O che tutti possono vedere e toccare, come la pietas del poverello di Assisi che giunse a Gubbio nel 1207 per incontrare gli amici Spedalonga, sbalordito da tanta quiete e raccoglimento.

Alessandro Moscè

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