L’OCCHIO VIGILE SULL’AMORE

Va di moda dire: quale libro consiglieresti per l’estate? Che cosa stai leggendo? Cosa ti porteresti sotto l’ombrellone? Chissà  perché, mi vengono sempre in mente romanzi datati, anche se recenti. Non dei classici, ma neppure una nuova uscita. Penso a Claudio Piersanti, nativo di Canzano, paese della provincia di Teramo, uno dei migliori narratori italiani di oggi (straordinario Luisa e il silenzio edito da Feltrinelli nel 1998). Vado alla trama. Uno sceneggiatore di successo, quasi cinquantenne, conosce una ragazza molto più giovane. E’ un dono o una costrizione alla lealtà , una prova per ripensare la sua esistenza sfumata tra un matrimonio finito male e una persistente depressione. Con I giorni nudi (Feltrinelli 2010), Piersanti mette a confronto Alberto e Lucia che si incontrano per caso, in ospedale, dove sono stati operati per una frattura alla tibia. Entrambi sono caduti a terra, lui da un due ruote di grossa cilindrata, lei da un motorino. Cosa lega l’uomo del cinema e la ragazza laureata che si occupa di altro? Forse un vuoto, una paura, una smania, o niente di tutto questo. Alberto ha bisogno di credere che le cose possano cambiare, come gli suggerisce Lucia, o desiste da ogni convincimento? Alla prima occasione sarebbe stato sincero fino in fondo. “E’ una meravigliosa storia d’amore, la nostra, ma a differenza di altre ha già  una fine stabilita. Ottobre? Novembre? Addirittura dicembre? Le idee gli si confondevano, quando cercava di fissare una data”. Il protagonista non ha la consapevolezza di ciò che fa e si ritrova a vivere la vita che gli capita. Si è avvinghiato a Lucia come, in un deserto, l’assetato all’acqua. Lei produce un effetto benefico, lo fa sentire più giovane, più aitante, più motivato. Eppure c’è qualcosa di inafferrabile, di immodificabile nella testa di Alberto, che va ad intaccare la sua affettività. E’ difficile trovare un equilibrio anche con una ragazza che molti gli invidiano. I giorni nudi sono mesi di riflessione, di slancio e di declino, mentre Lucia auspica che il rapporto faccia passi avanti e sogna un futuro insieme, dei figli, una casa ben arredata, le vacanze nell’appartamento al mare. Il romanzo di Claudio Piersanti è un alto e basso di emotività, di situazioni stabili dentro un’esistenza destabilizzata dall’incubo della decadenza. Come in altri libri il narratore mantiene una scrittura limpida, sintomatica, un occhio vigile sull’amore, sulla solitudine, sul senso di liberazione. La maturità è minacciata dalla vecchiaia: si cerca di capirne di più raccogliendo il disprezzo per un ambiente di lavoro che il protagonista conosce bene. Preserva il suo mestiere per evitare elucubrazioni sulla storia d’amore che gli proietta il peso della bellezza di Lucia, il timore di esserne sovrastato. Questi giorni nudi sono un’apparizione disarmante perché lei è giovane, autentica. Lucia captava molti  segnali e cercava di migliorare, costringendosi a una prova di umiltà alla quale aveva davvero poca abitudine. Era il suo modo di crescere. Anche nel vestire, sempre più semplice, le sembrava di aver modificato il proprio gusto per adattarlo a quello di Alberto. Ma la sofferenza non si attenua, non finisce. Piersanti lascia che la relazione continui come la malattia della verità che contagia Alberto, che gli fa sentire la positività di ciò che prima non conosceva. La personalità narcisistica dell’uomo contrasta con l’educazione al sentimento. L’improvvisa relazione si fa profonda mentre si scopre l’altro. Ma l’altro, chi è? Il modo migliore di porsi con l’altro, qual è? Alberto si accorge che l’altro non è un viaggiatore istantaneo, uno che potrebbe esserci o non esserci. L’altro contiene un’eccezione, non l’apparenza. Le visite da uno specialista e la prescrizione dei farmaci contro la depressione non lo preserveranno da un’amara constatazione: la sua lunga solitudine gli mancava, era giunto il momento di riconquistarla. Un uomo senza relazioni non deve giustificazioni. Può abbandonarsi al cattivo umore e non parlare per giorni. Può esserci e può non esserci.

Un romanzo destinato a durare nel tempo, si dice tra i critici quando si ha la consapevolezza di qualcosa che esce dalla produzione ordinaria, affastellata, anonima dei nostri giorni. Paolo Del Colle con Spregamore (Gaffi 2014) segna uno dei punti più alti delle ultime stagioni narrative italiane, con un romanzo confessionale, autobiografico, dall’impronta fortemente esistenziale, moraviana. Scrive Giuseppe Munforte nella bandella: “Ho iniziato a leggere Spregamore e non sono riuscito a staccarmene fino alla fine. Mi sono chiesto in cosa consistesse la sua forza ipnotica, allo stesso tempo arsura e acqua”. E’ la verità, la sensibilità, l’intelligenza e lo smarrimento che fanno da apripista, supportati da una lingua pastosa, addestrata ai sensi. Spregamore è una zona di Roma dove il padre del protagonista era andato a vivere, sulla via Ardeatina. Una specie di area franca, dove sembrerebbero incontrarsi il peccato e il perdono, la preghiera e la bestemmia, in attesa di un giudizio definitivo che divida gli abitanti tra coloro che sono destinati al paradiso e quelli condannati all’inferno. La madre, allettata, sta morendo, come come il gatto di casa che perde in continuazione le feci da una stanza all’altra. L’io narrante vive all’Eur in un’atmosfera decadente, grigiastra. Ad un certo punto Paolo Del Colle utilizza un interrogativo che racchiude ogni afflato del libro. “Dovrei chiudere gli occhi: dov’è dentro di noi, la vita? Sin dove arriva, dove rimane intatta, priva di residui o rancori, quando continua senza di noi ignorando la nostra esistenza e diventa un pensiero o almeno un’occasione mancata?” Questo è un romanzo sulla solitudine e sul dolore, sull’incomunicabilità  e sulla separazione dei morti dai vivi, che sono ricongiunti da un flusso della memoria e tracciano una linea di demarcazione  tra un mondo e l’altro. Come se la morte arrivasse prima di un decesso e la vita continuasse dopo la perdita, in quel senso di incompiutezza che non divide i gesti ripetitivi, i pensieri coatti, le riflessioni sfatte. Il protagonista incontra la bellezza delle ragazze slave tra la via Ardeatina e la via del Mare, all’ora di pranzo: giovani ferme sul ciglio della strada, sfiorate dai camion, dalla polvere, dallo smog e guardate attraverso le lenti di un binocolo. E Roma è un meandro, una campagna, una periferia, uno smottamento del terreno, una bacheca rimossa, un fratello mai avuto. Ogni tanto si insinua un sintomo, l’aura, che precede dei terribili mal di testa e fa sembrare quest’uomo smarrito, atterrito, stanchissimo. Spariscono i sogni che reclamano una vita non preventivabile ed emerge un’infinità  di oggetti: statue, maioliche, portoni, recinzioni, cancelli, bidoni. Una prostituta accompagna la vita visibile soggetta al tempo e alla dimenticanza, come a ciò che vogliamo riconoscere. Ma l’uomo non chiede altro che togliersi dalla scena madre. Togliersi con il corpo e con gli affetti, non volendo più vedere una madre che sta morendo, dopo aver soccorso, pochi anni prima, un padre assente. Il senso di nausea lo costringe ad una tensione dei muscoli, a conati di vomito, ma anche alla speranza, l’unica, di riuscire a dormire. Annota Andrea Caterini nella postfazione di Spregamore: “Tutti sono su uno stesso grado di umanità, per questo Del Colle non è capace di umiliare nessuno. Resistere è imparare a non mortificare la nostra debolezza di umani di fronte all’innocenza e alla colpa del mondo che tace o risucchia nelle sue feritoie le nostre preghiere”. E risuona un’affermazione singolare, una delle ultime di Paolo Del Colle: “Nessuno di noi ha voluto capire che non sono gli altri a rovinarci l’esistenza, a farci credere che poteva e doveva essere diversa, ma la solitudine ci spacca in due, a tutti, e già rimanere vicini a se stessi è un’impresa, la sola che ci permette di vivere insieme a qualcuno”.

Alessandro Moscè

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