TOTTI, PER UN GIORNO CAPITANO D’ITALIA

In Italia lo sport è una cosa seria, serissima, specie dentro i bar e specie quando divide le tifoserie bianche e nere. E’ facile intuire, per chi non lo segue, stigmatizzare la scelleratezza di chi si azzuffa per una partita di calcio domenicale. Ma la sfida degli eroi moderni che incarnano il basso epico, come diceva Borges, rappresenta anche altro. Lo sta dimostrando in questi giorni il capitano della Roma Francesco Totti, che lascia il calcio a 40 anni. Un simbolo dell’Italia, innanzitutto, un campione riconosciuto nel mondo, un romano fedele che ha sempre giocato per la stessa squadra, la sua, solo per amore. Un brand di casa nostra che appenderà le scarpe al chiodo. L’anti Ulisse, perché non se ne è mai andato da Itaca. Certamente la metafora di qualcosa di narrato da più di vent’anni, tra epopee e qualche delusione, una specie di marketing aziendale dall’Europa al mondo, un marchio di fabbrica che ha funzionato. Al punto che anche gli avversari di sempre, i laziali, hanno tributato un messaggio di saluto al capitano dell’altra sponda del Tevere, il simbolo invidiato come lo era il bianco-azzurro Giorgio Chinaglia. Alla sua età esce di scena e fa rumore senza volerlo. Totti buca il teleschermo più di Renzi o Berlusconi anche stando zitto: sornione, falsamente distratto, in realtà astuto, generoso, riservato, sensibile. Fuori del campo, ha unito più che diviso. E’ lui, questa settimana, la bandiera della povera Italia che ricusa i direttori di museo attraverso il Tar facendo una figura pessima. Di Totti ne parlano dalla Germania all’Australia da almeno un mese, esaltandolo. E’ un eroe antico e moderno, romantico, come in quei romanzi cavallereschi dell’Ottocento inglese dove si parla poco e predomina l’azione. “L’eroe è uno che sta di fronte a tanti”, scriveva Karl Kraus. Abbellisce un’impresa, e di certo quella sportiva ha più fascino di quella politica, specie di questi tempi. L’eroe non svanisce nel ricordo dell’uomo, nella memoria di una comunità, specie quando non lo vediamo più. Del resto lo stesso Luciano Bianciardi in Non leggete i libri, fateveli raccontare (1967) annotava ironicamente (ma non troppo): “Lo studio attento delle tattiche calcistiche moderne può giovare anche all’intellettuale, come giova al politico, al sacerdote, al dirigente, a chiunque insomma debba vivere in mezzo agli uomini e intenda prosperarvi”. La tattica di Totti: aspettare il pallone, giocarlo con il lancio, con il tacco, con la bella esecuzione, con la confidenza di chi sa cosa ha tra i piedi e la certezza che può far esplodere uno stadio, specie con un tiro mirato quando le cose si mettono male e mancano cinque minuti al novantesimo. Un fuoriclasse che nessuno mette in discussione. Un bambino diventato uomo, con un candore che non ha mai perso. Per questo ci piace il calcio. E’ il filo che unisce all’infanzia, alla purezza del gesto atletico, poetico. Totti per tutti, una volta tanto, specie quando la favola finisce, in attesa che nasca un altro mito e si canti un’altra epica.

Alessandro Moscè

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