Ci sono delle città di cui non si può mai dire che si è finito di conoscerne l’anima. Una di queste è Urbino. Anzi, si sarebbe tentati di sostenere il primato e l’unicità della sua posizione, diceva Carlo Bo a proposito del vento del Montefeltro, rimarcandone il segreto e l’anima, la fiamma, il fuoco, il dono. Sembra di entrare in una civiltà senza tempo salendo nei pressi di Urbino, nella terra del Duca, di Piero della Francesca, Paolo Uccello, Francesco di Giorgio Martini, Paolo Volponi, Carlo Bo. E oggi di Umberto Piersanti, il maggior poeta naturalistico italiano. Parliamo di un mondo in via di estinzione, di luoghi persi che sono diventati anche un modo di dire, oltre che una raccolta pubblicata da Einaudi nel 1994 e che ha fatto conoscere ad un pubblico più vasto la poesia lirica di Piersanti, il suo spirito di libertà e la passione di un uomo d’istinto. Questi luoghi li ho capiti attraversandoli più volte con il poeta, parlandoci, raccogliendo fiori, conoscendo la nomenclatura delle piante, una ad una, dalla sua stessa voce. I versi ritmano il quotidiano e sprofondano mollemente nel passato, in quella pienezza vitale delle Cesane, gli altipiani che circondano Urbino da sud. La strada sale e un riverbero di sole mi acceca. Sono davanti al Palazzo Ducale, in un luogo che evoca una memoria fisica, percettibile, che ha una durata nel tempo odierno. Urbino possiede questa grazia: non dà mai l’impressione, per chi cammina nelle strade, di attingere ad una storia, ma di essere ancora dentro la storia. Il passato si perpetua per un’immersione nel presente, per un’esperienza che ha molte accensioni. Dai colori intensi al paesaggio rimasto intatto, ai monumenti perfetti, l’oasi urbinate è in una dimensione universale da qualunque parte la si guardi. A Piersanti non è la floridezza del Rinascimento che sta a cuore, bensì l’umiltà della campagna e dei riti familiari: “il rilievo e la responsabilità dei sentimenti”, come disse Bo nella nota a I luoghi persi. E la sua attesa si staglia in un orizzonte come in uno sguardo preciso, ottico. In questa atmosfera la narrazione orale ha avuto e continua ad avere una forza che Piersanti ha sedimentato. Il vento gelido anche a primavera, nelle Cesane, rimanda alle querce della campagna, alla casa della nonna Fenisa in fondo al fosso: uno spazio ristretto e così emblematico appena si mette piede fuori delle mura. E nella sequenza di immagini, scorre il tempo come il luogo in tutte le stagioni dell’anno, in un mondo di solitudine e di racconto. Il mito è l’àncora di salvezza di Urbino e di Piersanti. Un mito che per il poeta è da un’altra parte, a pochi chilometri dall’università, nella libertà della natura, in un’appartenenza affollata di anni, di incontri, di amori. La contemporaneità è una vicenda che si lega a simboli di riconoscimento, ad un altrove. Ma un altrove concreto, non un riparo, né tanto meno una consolazione. La carica affettiva del mondo di Piersanti possiede una radice inestirpabile, una libertà nell’osservatorio cittadino. Fuori delle mura la tradizione poetica è quella della grande poesia che va da Virgilio a Pascoli. E sembra di poterlo ancora vedere il pastore, una figura centrale nella produzione lirica italiana. La distanza del paesaggio viene colmata dalla voce profonda di Umberto Piersanti, dal reale e dal sogno, dalle morfologie e dal mistero insondabile, da qualcosa che si rincorre in un alternarsi appassionato, recuperato dalla poesia. La stessa cosa avvenne nel romanzo L’uomo delle Cesane (Camunia 1994), come in parte nel romanzo di guerra L’estate dell’altro millennio (Marsilio 2001) e nella trasfigurazione mitica di Olimpo (Avagliano 2006). Occorre una precisazione: la distinzione è tra il poeta del paesaggio e il poeta di natura. “Io devo metterci il naso nella terra, devo sentire il contatto. D’estate ci dormo, nei boschi. Prendo il sacco a pelo e vado nelle Cesane. La mattina mi sveglia la raganella”, mi dice Piersanti. La ferita del presente rimane indistinta, ma è come un segno che si porta addosso: non si cancella. Le cose vengono innalzate da una creaturalità che finisce per essere personalizzata. Ecco che dal mito si passa alla mitografia.
Alessandro Moscè