Il suicidio assistito e l’eutanasia; la legge che manca; il dj Fabo che va a morire in Svizzera seguito il giorno dopo da un altro italiano, perché la menomazione dalla quale è afflitto non gli consente di fare ciò che vorrebbe, in libertà. I due uomini non volevano essere un peso per i familiari e hanno scelto di morire. Non si riconoscevano più, non si accettavano. L’infermità è una condizione che determina il bene e il male sulla propria pelle, un fatto che schianta improvvisamente e che, nel caso specifico, rimane duraturo, una seconda pelle. La lettera di dj Fabo è lapidaria, disarmante: “Mi portano fuori ma spesso non ne ho voglia. Le mie giornate sono intrise di sofferenza e disperazione non trovando più il senso della mia vita, ora. Fermamente deciso trovo più dignitoso e coerente, per la persona che sono, terminare questa mia agonia”. Da qui il contatto con l’associazione Luca Coscioni. “Una realtà che difende i diritti civili in ogni fase dell’esistenza dei cittadini. Compreso il diritto sacrosanto di morire. Grazie. Fabiano Antoniani”. Queste parole non fanno comprendere solo che cosa sia la vita per un giovane dinamico, ma anche che cosa sia la morte. Colpisce l’assoluta convinzione che morire rimanga il gesto da compiere. L’impressione, però, è che la morte stessa venga vista con occhi diversi. Non come la fine di tutto, ma come un ponte. Ora, dice dj Fabo, in quella missiva, terminandola. Leggendo i giornali, le dichiarazioni, le espressioni, i vocaboli usati, quel “sacrosanto morire” mi è parso, paradossalmente, il rovescio per una sottile speranza, un filo che non spezza del tutto con il passato. Come a dire che la morte non viene immaginata in un vortice nero, in un buco nell’abisso, ma in una seconda vita. La morte e un mistero da scoprire, una carta da rovesciare. Se non c’è speranza qui, la ripresa può sorgere dalle ceneri della Fenice. Non voglio parlare di fede, di resurrezione, di salvezza dell’anima, ma dj Fabo ha espresso la volontà di porre fine all’agonia. Perché il viaggio nell’aldilà sia migliore che rimanere nell’aldiquà, allontanando l’angoscia, il tormento? Ha accettato la sfida di chi va a vedere il paradiso di Dante o il nulla, a constatare il monito dei vangeli o l’assenza di ogni cognizione? Dj Fabo è stato un coraggioso, non un vile. Un uomo imperituro, non un arreso. Quando muore un familiare ci auguriamo di poterlo rivedere. Il ragazzo ha anticipato l’oltretempo, il dopo. Il confronto al Parlamento sulla legge non è tutto. C’è qualcosa che si annida nelle coscienze umane e che non potrà essere estirpato. Perché il successo del ragazzo possa continuare e perché se la società viene sconfitta dal suicidio assistito, il testamento biologico, forse, non è così aberrante per chi lo scrive, per una madre che lo riceve, per una fidanzata che lo legge, per chi è stato la spalla dell’uomo allegro e tenace che suonava e cantava tra la gente. Dj Fabo si è incamminato temerariamente per una via sconosciuta. Scriveva Hermann Hesse: “Il richiamo della morte è anche un richiamo d’amore. La morte è dolce se le facciamo buon viso, se l’accettiamo come una delle grandi, eterne forme dell’amore e della trasformazione” (Lettere, 1895-1962).
Alessandro Moscè