LA SFIDUCIA ANTROPOLOGICA

Cosa ci dice il referendum sulla soppressione del bicameralismo a distanza di una settimana dal suo esito? E cosa ci suggerisce la composizione del nuovo governo affidata a Paolo Gentiloni, uomo di lungo corso? La consapevolezza è che in entrambi i casi non cambierà granché. Non perché la riforma della legge fosse pressoché inutile, o perché Gentiloni venga visto solo come garante del dimissionario Matteo Renzi, ma perché alla politica e alle istituzioni sfuggono, ancora una volta, le reazioni degli italiani, le priorità, i bisogni reali. Il Paese è sempre più povero e la forbice tra ricchi e (ormai) indigenti si è allargata. Goffredo Parise direbbe che il rimedio è la povertà: “Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è comunismo, come credono i miei rozzi obiettori di destra. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l’automobile, le motociclette, le famose e cretinissime barche” (dal “Corriere della Sera”, 30 giugno 1974). La crisi economica stagna, così come i dati, inquietanti, sulla disoccupazione specie nel Mezzogiorno. Ebbene, il referendum non andava a toccare il male oscuro, il vortice buio dell’Italia. Né si pensa che il governo Gentiloni segnerà un netto distacco tra prima e dopo. In particolare i giovani dai 25 ai 34 anni hanno votato in favore del no. Sono i più penalizzati e depressi perché non vedono uno sbocco davanti a loro. La politica e le istituzioni appaiono incapaci di colpire i corrotti. Non frenano l’attività della mafia, non salvaguardano l’onestà del cittadino. Insomma, aleggia una sfiducia tale che porta alla non credibilità dello stesso capo del governo, chiunque esso sia. Le istituzioni vengono declassate localmente, considerate in crisi irreversibile, chiuse in una torre d’avorio e inerti di fronte all’Italia che scivola sempre più in basso. La scossa temperamentale di Renzi non è servita, il populismo diffuso neppure. I cittadini, nel 2016, non credono a niente. Viene da pensare a Ennio Flaiano, il quale, sardonicamente, scrisse nel suo Diario notturno (1956): “Ha una tale sfiducia nel futuro che fa i suoi progetti per il passato”. Il carattere degli italiani sta mutando antropologicamente, per usare un termine caro a Pier Paolo Pasolini. Se negli anni Sessanta era l’omologazione del consumismo ad aver avvicinato le tendenze delle classi sociali, tanto non distinguere più neppure nel vestiario i figli della borghesia e i figli del proletariato, nel terzo millennio l’omologazione nasce dalla sparizione delle classi medie e dal disappunto che livella le generazioni. Le differenze, ormai, avvengono per fasce d’età. Chi non ha un lavoro prova un sentimento contrariato che lo porta a vivere un eterno presente. Un presente penalizzante e depressivo. Non è più il tempo di rivoluzioni a mano armata come negli anni di piombo, ora che è esaurito il benessere del capitalismo. E’ tempo di capire, probabilmente, che la coscienza nazionale si sta spostando verso la “protesta del reddito” che renderà ingovernabile il Paese fino a neutralizzarlo nelle sue massime rappresentanze. La deriva è pericolosa perché potrebbe dilagare l’uso arbitrario delle proprie ragioni con la violenza su cose e persone. La mutazioni affosserebbero il potere giudiziario, non solo quello politico (che non funziona) e quello legislativo (altrettanto asfittico). Il ciclo produzione-consumo, passerà, forse, per una rivolta collettiva non ideologica, ma esistenziale.

Alessandro Moscè

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