I MORTI E I VIVI DI GIOVANNI RABONI

Nessun altro poeta del Novecento, con Saba, Sereni e Caproni, ha saputo intavolare un dialogo tra i vivi e i morti così efficace come è riuscito a Giovanni Raboni, tanto che il significato dell’assenza appare recuperato in un’esperienza di coscienza, non solo di memoria. Ogni volta che è venuto a mancare un parente o un amico, ho aperto un libro di Raboni. Glielo dissi dopo una conferenza tenuta ad Ancona e mi rispose che gli era stato detto più volte, specie dagli amici poeti. Qualcuno glielo aveva anche scritto ringraziandolo del sollievo procurato. Il suo sentimento, nell’intreccio fonico, lievita da una voce che esprime il “dolore di vivere”, una malinconia come prospettiva esistenziale. Ma la forza del poeta rimane soprattutto nel rigore e nella moralità, nel retroscena etico in ogni aspetto agglutinante della vita, in un ideale che riabilita le stesse cose “venate di grigio”. L’obbedienza è verso una conoscenza anacronistica. Sembra che Raboni alluda ad una verità sottaciuta che costituisce un nucleo omogeneo dell’intera poetica. Il dialogo appare autoritario, slanciato verso un’attenzione all’innocenza, ad una grazia che dentro il dolore si scoglie, così come nelle intense relazioni. Una grazia benefica, che ridà luce, che rigenera una quotidianità dimessa. Il respiro dell’immagine riporta appunto al dialogo tra vivi e morti, ad un’atmosfera di ombre mobili, di oscurità e di mistero pur in una costruzione del verso che rimane eterodiretta. Se il basso parlato di Raboni è senz’altro ascrivibile alla linea lombarda, una tensione ulteriore, rispetto ad altri conterranei, si compie nell’ossessione del ritorno simultaneo, continuo dei morti. A tanto caro sangue. Poesie 1953-1987 (Mondadori, 1988) offre l’opportunità di dipanare un discorso orale, acuminato, struggente. Si impone la figura paterna sin dalle prime poesie, tra le più belle dell’intera raccolta (“Ho gli anni di mio padre – ho le sue mani, / quasi: le dita specialmente, le unghie, / curve e un po’ spesse, lunate…”). La condizione di un uomo che afferra i contrasti della vita risveglia il dolore e la gioia con un senso di retrospettiva (come ha notato Cesare Garboli). Si individua un sentimento immerso in una complessità calma e malinconica. Il discorso di Raboni è tagliente, calcolato nello “scambiare pareri” destinati a durare, a non essere messi in discussione pur nella loro vocazione dubbiosa e nel loro insinuante sganciarsi da ogni sentore qualunquista (“Può darsi che a vivere qui / si diventi sul serio come dici: / più opachi, più liberi ogni giorno: / come la nebbia viene sempre meno, / un po’ meno ogni inverno”). Il ragionamento si allarga in una conversazione, nell’armonia ricomposta in un segreto prospettico, in una corrente interiore che permette di vedere le cose, di coglierle nell’essenza, semplificate e innalzate, ricordate in una sacrale conservazione. I morti parlano, si muovono, circoscrivono un’azione. Forse sono in esilio. Il significato della morte riappare in tutta la sua emblematicità, perché il distacco dalla vita è colmato dal dire poetico. Il canzoniere di Giovanni Raboni è un modo per appellarsi ad un orizzonte che congiunge due estremi, ad un’associazione di idee nel travaso da un territorio all’altro, ad una metamorfosi che trattiene il tempo e lo fa vibrare. Il poeta immagina il fantasma della morte e lo proietta in un estremo sentire di fisionomie e somiglianze. La riabilitazione dei defunti si fa fiera opposizione all’horror vacui, ad una paura ancestrale dell’uomo.

Alessandro Moscè

RABONI

 

 

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