ALESSANDRO MOSCE’: L’ETA’ BIANCA E’ UN EDEN PERDUTO

da www.blogletteratura.com, 15 luglio 2016

 

Alessandro Moscè è uno scrittore che nel panorama di oggi, dove imperversano il giallo, il noir e il fantasy, si distingue nettamente. I suoi romanzi raccontano l’amore e la morte, dunque qualcosa di originale e soprattutto di inattuale. Non c’è nulla di più stupefacente di questi due poli all’apparenza opposti e inconciliabili. L’età bianca (Avagliano 2016) si alimenta nell’oscillazione tra la morte scampata e l’amore atteso. Ma lo scrittore nativo di Ancona e che vive e Fabriano, fa di più, perché ad un certo punto la morte e l’amore si danno la mano siglando una specie di accordo simbolico. Elena, la ragazza diventata donna, fa sorgere il dubbio che sia proprio la morte a visitare lo scrittore, nascosta dietro una normale signora dalle fattezze dolci, aggraziate, sposata e con due figli. Dicevamo della morte: torna spesso, specie nella parte iniziale del romanzo, nelle figure dei nonni, degli zii, dell’omino della casa di riposo e nel calciatore della Lazio che Alessandro Moscè immortala spesso: Giorgio Chinaglia, il numero nove della Lazio del primo scudetto, quello del 1974, passato alla storia per essere stato vinto da una banda di pazzi scatenati. L’età bianca è l’età dell’adolescenza, pura, incontaminata, che non ammette compromessi. Moscè vorrebbe riviverla con Elena, il suo amore mancato da diciottenne. Elena è una presenza seducente, un po’ misteriosa, alla quale l’autore, in chiave autobiografica, racconta se stesso confidandosi fino in fondo, specie sulla guarigione altamente improbabile, da un sarcoma di Ewing avvenuta nel 1983 (Moscè è stato in effetti un caso clinico dell’Istituto Ortopedico Rizzoli di cui si parlò anche nei convegni medici). Con Elena immagina di trascorrere le vacanze al mare di Senigallia dove incontra il grande poeta Mario Luzi, di recarsi ad Assisi per una visita alla basilica, fino a che l’amore si compie realmente in un albergo umbro e l’età bianca pone il sigillo sulla maturità dei due complici. Ma è un’età che non può durare, fuggevole come la giovinezza leopardiana, come tutto ciò che sigla una felicità improvvisa, un eden perduto. La morte e l’amore sono un nutrimento terrestre, un mezzo con cui raccontare la vita di tutti i giorni nella provincia malinconica e noiosa. Tutte le province si assomigliano, ma Moscè le disegna alle cinque del mattino incontrando i clochard e le bariste, di notte, in sogno, oppure andando ad una manifestazione di operai che scioperano perché una grande azienda metalmeccanica è stata venduta e i dipendenti mandati in cassa integrazione. L’evocazione di Alessandro Moscè scaturisce sempre da una memoria privata, personale, ma che si fa corale, come quando descrive la suora delle elementari che insegnava la preghiera ai bambini. L’amore è l’amore di tutti, come il timore della morte e l’immaginazione dubbiosa di un aldilà dantesco all’interno della vasta umanità di sempre. Basterebbe una frase del libro per sintetizzare il romanzo nella sua completezza: “Vorrebbe tornare al Dio di suor Melania che non era identificato in un giudizio universale che abbaglia di splendore. Non era un Dio onnipotente, ma umile, laborioso nel suo fare. L’infinità bontà di Dio si avverte nel bisogno, dove la ragione è una garanzia e non un’esortazione”. Insomma, un Dio come un uomo qualunque, che guarda e che spingerebbe chiunque al buon senso. Chissà se l’età bianca tornerà ancora, se l’età adulta e la vecchiaia permetteranno questo svincolo nella beata spensieratezza, come quando si guarda una partita di calcio in televisione e un centravanti dalle spalle possenti segna un goal che rimane impresso a lungo.

Sandro Terzili

 

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