La spiaggia di velluto si era mobilitata, alla Rocca Roverasca, per ascoltare il più grande poeta italiano, Mario Luzi. Era l’estate del 2003. Arrivò da Ascoli Piceno dopo le sette della sera: quieto, sorridente, affondato in un serpaio di rughe che gli segnava il volto. Si informò subito sulla rocca, sull’evoluzione rinascimentale del modello recintato con la torre, a presidio delle principali vie di fondovalle, dei bacini fluviali o del litorale, come accadeva lungo l’Adriatico marchigiano. La Rocca nella sua accezione e forma quattrocentesca, per ragioni di deterrente militare e presidio simbolico degli interessi delle locali signorie, svettava circolarmente. Luzi sembrava un nobiluomo d’altri tempi, con un fuoco dentro non ancora spento, davanti all’imponente architettura a pianta quadrata. Il poeta nominato senatore a vita, ma che molti non avevano mai letto o avevano visto per la prima volta in televisione dopo una polemica con l’ex ministro Maurizio Gasparri, suscitava un grande rispetto. Più volte candidato al Premio Nobel, appariva sospeso tra il sonno e la veglia, quando parlò della morte. Non aveva paura, come se la fine di tutto fosse solo un esilio, un rimpatrio. Cioè l’inizio di qualcos’altro. Luzi parlò anche della pena di vivere, dell’innocenza dell’uomo contro i soprusi. Rivendicò la necessità di tornare ad un poesia civile. Voleva una società in cui il poeta potesse sentirsi cittadino tra i cittadini, senza riserve. Questa era la vera rivoluzione della letteratura, di qualunque scrittore del Duemila, secondo Luzi. Un compimento, quindi, attraverso la verità delle cose da dire. Quando la sua giacca blu cominciò a muoversi ai lati perché si era alzato il vento, ebbi l’impressione che si assentasse, che cercasse altro rispetto al contatto con gli spettatori della Rocca che erano accorsi per lui. Ho pensato che cercasse il profumo dell’Adriatico, e me ne accertai quando andammo a cena. Al ristorante guardava sempre a sinistra, verso il mare nero che non poteva mostrare il suo orlo, ma che alitava su di lui liberandogli i polmoni. Quel soffio marino, accompagnato dai sardoncini a scottadito che il poeta apprezzò molto, era un canto della natura. Chiese come si preparano e il proprietario del locale spiegò il segreto. “Farina, olio extravergine d’oliva, sale. Quindi sviscerare il pesce, lavarlo, asciugarlo, infarinarlo bene e scuoterlo per eliminare la farina in eccesso. Mettere i sardoncini sul testo di ghisa ben caldo, ma non rovente, girare. Condire con qualche goccia d’olio extravergine di oliva e un pizzico di sale. Ecco la specialità pronta da servire, maestro”. Anche per un ristoratore Mario Luzi era il maestro. Mi tornò in mente una sua poesia, quel “soffio di prima estate” che vola basso e sfiora le tende, che eccita i capelli. E fissai i suoi pochi ciuffi di lana che si erano alzati incerti sul capo. Gli occhi erano ancora immobili verso sinistra, ma quando gli parlai del garbino, mostrò attenzione. Il garbino è un vento della bassa Lombardia e dell’Emilia Romagna che arriva fino a Senigallia, raccontano i narratori orali di mare. Le frequenze sono significative in qualsiasi stagione, ma in particolare durante i mesi intermedi, la primavera e l’autunno. Il garbino soffia forte nelle ore pomeridiane, con raffiche anche di cinquanta chilometri orari sulle coste. Nell’imminenza dei quarant’anni, da Onore del vero (Neri Pozza 1957) è un quadro d’autore che ritrae perfettamente l’effigie del poeta, come aspettasse il chiarore del giorno, durante quella stessa notte, avvolto dal garbino: “Si sollevano gli anni alle mie spalle / a sciami. Non fu vano, è questa l’opera / che si compie ciascuno e tutti insieme / i vivi i morti, penetrare il mondo / opaco lungo vie chiare e cunicoli / fitti d’incontri effimeri e di perdite / o d’amore in amore o in uno solo / di padre in figlio fino a che sia limpido”.
Alessandro Moscè