Nell’epoca dei profughi, dei rifugiati politici e degli apolidi, degli immigrati e dei clandestini, esistono ancora luoghi di contenzione, prigioni più che carceri, ambienti disumani: è questa la premessa dalla quale parte Simona Vinci per illustrare il viaggio struggente della protagonista del suo romanzo La prima verità (Einaudi 2016), dove “i luoghi hanno memoria più degli esseri umani”. “Non ricordo di essermi mai stupita più di tanto per le bizzarrie di molti personaggi che incontravo per la strada. Li assimilai subito nel mio panorama emotivo e ancora adesso il mio occhio allenato li riconosce e li vede subito, anche da lontano, anche al buio”. E’ la storia di abbandonati, reclusi, dimenticati. Una storia scandalosa che a partire dal 1992 Angela, giovane ricercatrice italiana, rincorre ossessivamente. Sbarca sull’isola greca di Leros, nell’arcipelago egeo del Dodecaneso, dove tra le acque si possono trovare i relitti di guerra, in particolare dell’incessante bombardamento aereo ad opera della Luftwaffe che durò dal 26 settembre all’11 novembre 1943. La piazza d’armi è stata il centro della base navale che per cinquant’anni, all’inizio del Novecento, ospitò migliaia di militari italiani: caserme per soldati, magazzini, officine per idrovolanti, sommergibili e cannoni, villette per ufficiali. Finita la guerra venne allestito l’ospedale psichiatrico, un “mastodonte annerito, un dente guasto trivellato di cunicoli oscuri”. Angela è pronta a prendersi cura, come i suoi colleghi, dei pazienti “rivelati” al mondo dalla stampa britannica, vittime di un colpevole segreto dell’Europa intera: un’isola manicomio dove a suo tempo il regime dittatoriale deportava gli oppositori politici alla Grecia dei colonnelli, facendoli convivere con i malati di mente. Si tratta di “deistituzionalizzare” l’ospedale nel quale manca perfino il personale adeguato, con due soli infermieri per più di mille persone, in quest’isola sinistra, arretrata, riarsa dal sole, piena di alberi di fico e fiori gialli a forma d’imbuto, di pini marittimi piegati. Scrive Simona Vinci: “C’erano corpi che strisciavano lungo i muri o giacevano abbandonati per terra. Scarafaggi umani maschi e femmine si voltavano sullo strato di sporco che ricopriva i pavimenti al punto che era impossibile indovinarne il disegno sottostante”. Stanzoni con venti letti e un padiglione, al di là del muro, con i lungodegenti più pericolosi, gli ingovernabili, i violenti che non è possibile sedare, ai quali viene dato da mangiare e da bere gettando il cibo e l’acqua sopra il muro. Tra paraplegici, tetraplegici, mongoloidi e autistici, spicca la figura di un bambino terrorizzato dai “mostri”, che si infila un sasso in bocca fingendosi muto ma che urla di notte, che scruta l’orizzonte del golfo dalla fortezza inespugnabile protetta da una rete di filo spinato. E poi il pittore, ateo e miscredente, che disegna madonne con i piantoni alle costole. Quindi la ragazza silenziosa, selvatica, che non sa leggere, con “la faccia lunga da cane bastonato e le occhiaie perenni”, abusata da piccola. Il bambino dorme su una tavola di compensato con una stuoia sopra, mentre i detenuti sembrano un’armata invisibile di insetti, protetti solo dal buio “che creava una specie di bolla silenziosa e liquida”. La prima verità è un bel romanzo: per raccontare si parte dalla cronaca, da una vicenda realmente accaduta, dai tratti visionari eppure incontrovertibili quanto spaventosi. Simona Vinci si definisce spia, guardona, ladra. I matti l’attirano, i “mattucchini”, come si era soliti chiamarli a Budrio, nella terra della pianura bolognese dove è vissuta da ragazzina. Fanno parte di un destino documentato, e in fondo non c’è neppure bisogno di redimerli, ma solo di accettarli, di convogliarli nella normalità solitaria, così come succedeva con la madre: “Sentiva le voci, mia madre. Sentiva i mobili muoversi, la notte, e aveva paura della nostra casa. Eppure mi lasciava da sola”. I fantasmi attraversano i muri, le siepi, danno senso ai giorni, ci fanno compagnia e non sono così malvagi. “Ma era davvero pazza, mia madre, così come le ripeteva mio padre e come anche io avevo incominciato a credere? E se lo era cosa significava?”. La paura attrae, l’ansia è un ragno gigantesco, ma “si diventa ciò che si è destinati a diventare”. Simona Vinci attraversa la Sierra Leone, dove la malattia mentale non esiste perché c’è di peggio: si muore di fame e di sete, di malattie endemiche, di violenze. Il romanzo, che assume i connotati del reportage, ha sfumature saggistiche, pensieri che si aprono all’avventura della vita più complessa, diversa, disperata: “Abbiamo imparato, stiamo imparando, che i muri di delimitazione, i confini, le città speciali si possono costruire anche senza cemento armato e mattoni”. Dilaniare un tessuto sociale è facile, come creare gironi infernali tra panche di legno per uomini e donne nudi, ammassati gli uni sulle altre, imbottiti di psicofarmaci, con la bava alla bocca”. Nell’immaginario collettivo la follia è ancora una malattia contagiosa, e questa è la prima, triste verità.
Alessandro Moscè