DARIO BELLEZZA: ESISTENZIALE E CREPUSCOLARE

Se si eccettua L’Oscar Mondadori uscito lo scorso anno a cura di Roberto Deidier, oggi rimane ben poco dell’opera di Dario Bellezza, e ci dispiace. Per il ventennale della morte, l’editore Castelvecchi ha riproposto Il male di Dario Bellezza di Maurizio Gregorini, un tormentato diario sulla malattia del poeta morto di Aids nel 1996. A corredo degli ultimi giorni passati a letto, con la descrizione straziante delle invocazioni e degli sproloqui di Bellezza, ci sono le interviste agli amici. “La sua morte era diventata una dolce cantilena”, dice Antonio Veneziani. Luca Canali evidenzia la “luttuosa grandiosità” dei suoi libri; Antonio Porta la misura del poeta decadente (D’Annunzio), ma non maledetto sul modello dei simbolisti francesi; Enzo Siciliano si sofferma sul poeta dalla linea esistenziale, con un accento di “strazio recitato” e di “turbolenza emotiva”. Impulsività e fervore di una vita intesa come protesta, e quel “lento suicidio” al quale ha fatto riferimento Pier Paolo Pasolini, erano gli “angeli della vita e della morte” del poeta, la dicotomia che nasceva dall’abbrutimento. Il fascino dell’esistenza sembrava quello di un sinistro intuito, di una contraddizione tra l’essere e il volere, che hanno impresso, fino alla fine, la vita e l’opera di Bellezza. Il ritmo danzante di questo male imperversa in uno struggente impatto con la realtà e le sue implicazioni, in una lucidità razionale e allo stesso tempo irragionevole. Non c’è un altro poeta del secondo Novecento che abbia scritto con la stessa foga e disperazione di Bellezza. Ma il suo esperpento letterario, per dirla con Enzo Siciliano, è nel veder violentate la propria vita e la propria scrittura. Bellezza era raffinato nella percezione e “barbaro” nell’espressione, e la virulenza indica un segno distintivo che non può essere ritagliato solo nello spazio singolo, ma come il rinnegare il Sessantotto e il dopo Sessantotto con implicazioni crude, sprezzanti. Nel Duemila non nascerebbe più un poeta come Bellezza, formatosi a stretto contatto con la Roma degli intellettuali: Pasolini, Moravia, Penna, Bertolucci, Morante. Era un poeta spavaldo che non veniva distratto dalla contestazione ideologica, perché faceva dell’autobiografismo la cifra più consona al suo progetto letterario. Ma quella volta c’era ancora una società letteraria. Il cappello a larghe falde e il foulard di Bellezza davano forma al poeta che sentiva l’angoscia dentro di sé e la considerava un espediente per apprendere, nel viaggio letterario, una destinazione volta a conoscere la “misera morte” della civiltà. Lo scotto nasceva da una legge della natura, da un’imposizione dell’ideologia. Era controcorrente perché non conosceva posizioni di maniera. L’insegnamento di Pasolini si rivelò nella durezza dei punti di vista assunti di volta in volta con un carattere autodistruttivo. Non era mai lezioso Bellezza, censore della vita mal spesa (a partire dalla sua), dell’autopunizione come peccato di giovinezza, con una complessità e un’esuberanza mescolate a un assideramento della realtà: ripetitiva, ma non per questo fallace, superficiale. L’innocenza del condannato a priori non è un tratto peculiare della poesia italiana, e Bellezza non assomigliava ad altri. L’indagatore di disperate speranze è un caso a sé, malato della “malattia della morte”, come scrisse in un verso e come fece intendere di continuo. Invettive e licenze (Garzanti 1971) inizia con un proclama contro lo Stato che vuole inghiottire l’uomo nella macchinosa congerie della sua burocrazia. La poesia assume un tono civile, di contestazione contro gli apparati istituzionali e la “consolante borghesia”. Ma basta un flash back per ridare parola alla solitudine e a quell’amore ripensato in disparte, in cui ci si sente scapolo in miseria (“Gli orli senza miele della tazza / screpolata ai quali mi attacco a bere / e nella gola scivola piano il mio / dolore che s’abbandona alle / immagini di ieri, quando tu c’eri”). Ci manca molto Dario Bellezza. La sua malattia segnò il destino che anni dopo sembra anche un presagio nell’inferno di un tempo lascivo, oltraggiato. La sconfitta dell’uomo è l’estremo sentire nella screpolatura delle cose, che sembrano tutte in fase di sgretolamento. E con esse il singulto crepuscolare segna il passo dolente verso l’addio per un destino che vale come profezia. Quel cappello a falde larghe e quel foulard ci fanno capire come certe tracce sono state cancellate da quando la letteratura italiana ha occultato il senso della provocazione e dell’invettiva. Un eccesso di sperimentalismo e una poesia solipsistica dell’io, di tipo confessionale, ci fanno dire che Bellezza era uno dei pochi non omologati. Maurizio Gregorini lo ha intervistato in un arco temporale piuttosto lungo, e Il male di Dario Bellezza contiene affermazioni eloquenti specie sulla morte: “Ho paura della morte perché non so cosa ci aspetta dopo. Cosa ci possa essere nell’aldilà. Vorrei poter morire senza accorgermene”. L’amico Alberto Moravia, andatosene prima di lui, lo rincuorava, in una sorta di patto confidenziale: “Se esiste l’altro mondo non preoccuparti, te lo farò sapere. Ti lancerò qualche segnale”.

Alessandro Moscè

cavallaro

 

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