IN CASA E NELL’ALDILA’

La qualità e quantità di riscontri critici che compongono questo libro testimoniano in maniera esauriente e approfondita la convincente esperienza poetica di Alessandro Moscè nel percorso della sua produzione, dalla prima raccolta fino a oggi. E prevale, a voler tentare una sintesi complessiva ma non sommaria dei contributi che qui si leggono, una valutazione ricorrente che riporta l’attenzione di Moscè poeta, da un lato, alla quotidianità della nostra esistenza e, dall’altro, alla forza dei sentimenti e della speranza, nell’altalenante tragedia che appare essere l’esistenza.
A verifica del possibile “assunto” che ho dato all’apertura di questa breve introduzione, sono andato a riprendermi e a rileggere i libri di Moscè che possiedo, da L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro, 2005), a Stanze all’aperto (Moretti & Vitali, 2008), a Hotel della notte (Aragno, 2013), a La vestaglia del padre (Aragno, 2019), fino a Per sempre vivi (Pellegrini, 2024). E mi si è subito venuta a profilare quella ricerca profonda della sua poesia, affidata a una galleria di situazioni e di ritratti che rappresentano altrettante “sfumature” di quell’esperienza umana di cui parlano molti degli interpreti che si sono occupati di Moscè.
Oltre il culto della forma, ma non indipendentemente dalla capacità di essere forma, senza scivolare nel tranello opposto del mito dei contenuti, la poesia di Moscè cerca la pista di nuovi rapporti conoscitivi, dichiarandosi come esperienza delle cose e del mondo, dentro tempi e luoghi ben precisi. Da qui quegli spunti concettuali che intervengono a dare energia alle situazioni e ai singoli dettagli, realizzando un quadro sempre ricchissimo dalle cui immagini si ricompone la metafora di un serrato corpo a corpo dell’uomo con il mondo e la storia. In una linea di consapevolezza, che non dimentica una prospettiva di più ampio e concreto impegno, senza essere tuttavia protesta o propaganda, affidandosi sempre al presupposto di pensiero.
E ancora, a ulteriore individuazione di una vocazione, come non ricordare quella particolare cifra elegiaca che caratterizza molte poesie di Moscè? È nell’ottica di una memoria intesa non come rimpianto, ma come tesoro inestimabile, punto di partenza per ricreare, in modo nuovo, ciò che è andato perduto. La sua pacata ma intensa cifra lirica (vero ossimoro di molti suoi versi), che mi ha sempre colpito, porta l’indagine esistenziale a risultanze di valore universale, in una scrittura misurata, che corre nel senso dell’amplificazione calibrata, cioè della messa a fuoco più incisiva della rappresentazione, risultando funzionale non solo all’originale stile lineare dell’autore, ma anche all’immediato coinvolgimento di interesse del lettore.
Quel che mi sento di aggiungere all’ampia indagine critica che fa luce sulla produzione poetica di Moscè è il tanto di inventività fantastica, di visionarietà che interviene talvolta ad animare le situazioni facendole levitare e caratterizzando in aerea leggerezza le presenze di persone, di atmosfere e di paesaggi per virtù dell’autore nel suo stesso farsi leggero. È un autentico filo onirico che, solo parzialmente riconosciuto e segnalato dai critici, affiora qua e là improvvisamente con un effetto di sorpresa coinvolgente per me lettore. Sono luoghi prima sognati o intravisti nella visione che effettivamente documentabili, anche se reali. E sono anche certe presenze umane, rese diafane e lattiginose da uno schermo che, mentre le vela, nella loro improvvisa luminosità anche le rivela.
Proprio da questo punto di vista, del filo onirico che ho particolarmente apprezzato, non posso non chiudere l’incipit a questa raccolta di interventi critici con la citazione di una sua poesia da L’odore dei vicoli che non ho mai dimenticato. È Amore e giardino: “Vuoi venire / dove il mondo si assottiglia / e l’eco dei grilli non si sente più? / Io non posso tardare, / il giardino mi aspetta / se non c’è nessuno / dalla piscina delle carpe ai giochi, / quando il limbo intatto / dorme il primo sonno / che io rimando sempre di due ore. / Arrivo trafelato, gli occhi sfidano l’ombra / di chi è come morta tra i veri morti. / Sotto l’ippocastano è rimasto / ancora l’odore delle sue calze, / l’estate lo conserva solo per me, / non sembra vero”.

Paolo Ruffilli

 

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