LE MASCHERE E LA MASCHERINA

Quando un paese è stravolto dal diffondersi del male, l’uomo si rende conto che la morte è incontenibile, come nel racconto La maschera della morte rossa di Edgar Allan Poe. Se spesso la morte è considerata come un inciampo, un evento che devia il corso delle abitudini, l’allungarsi dell’età media, le cure di bellezza,  il vestire conformando i capi di abbagliamento tra persone più o meno adulte, i luoghi di divertimento equiparabili tra giovani e meno giovani, e la stessa animazione notturna che vede partecipare generazioni che una volta non avrebbero mai aderito, hanno attutito l’età che precede la vecchiaia. Ora l’elisir di lunga giovinezza è svanito con l’avvento del Coronavirus. Facciamo un’altra considerazione. Negli ultimi anni si è pensato di celebrare i funerali dei parenti deceduti sistemando il cadavere come fosse ancora vivo. Un defunto messicano che amava giocare a poker, è stato imbalsamato e messo a sedere in mezzo agli amici fingendo una partita a carte. Si sta diffondendo la pratica di una morte serena, indolore, smorzata, perfino allontanata, ma questi giorni ci hanno riportato ad una consapevolezza alquanto diversa. La malattia fa paura, come la morte. Le nostre reazioni sono ancestrali, recondite. La morte può anche lasciarci impreparati, perché sprovvisti di cure mediche adeguate, di sufficienti reparti di assistenza sanitaria nel disordine dei contagi, rapidissimi. Siamo perfino all’assurdo di dover scegliere chi salvare tra i ricoverati negli ospedali. Il Coronavirus ci sovrasta nella percezione della natura matrigna di Leopardi e ci riporta ad una visione universale e illuminista. Un’infermiera stremata dai turni di lavoro si addormenta sulla scrivania davanti al computer. Un medico le ha scattato la foto che è stata postata sui social, diventando il simbolo della lotta contro il male. Alle sei di mattina la donna è riuscita a sedersi indossando ancora la mascherina, la cuffia e il camice da lavoro. E’ crollata per la stanchezza e il sonno. Nel frattempo il premier Giuseppe Conte ha adottato lo slogan “Io resto a casa” che dovrebbe valere per chiunque, evitando inutili spostamenti da un comune all’altro, visto che l’Italia intera è zona protetta. Ci rifacciamo ancora al libro di Poe, La maschera della morte rossa, intuendo che la letteratura è spesso antesignana di una condotta, presaga di ciò che accadrà. La terribile pestilenza si metaforizza nel sangue, nel tessuto fluido di globuli: appunto la Morte Rossa. Per evitare ulteriori contagi il principe Prospero invita nella sua casa-fortezza i cortigiani, sicuro che potrà metterli in salvo. Vuole creare una barriera tra sé e la stupida morte, rendersi utile per proteggere le persone più affezionate. La quarantena del principe, però, finisce male. Una maschera riesce ad entrare furtivamente nel palazzo. Chi è? Un cadavere che replica in serie altri cadaveri, che uccide. La metafora della vita è nella morte stessa, implacabile, perché il principe ha ecceduto nei festeggiamenti ritenendo che bastasse la baldoria per esorcizzare il pericolo. La folla di maschere, tra danze e suoni, cede di schianto. In quel gran carnevale è stata sottovalutata la pandemia, subdola, perniciosa, strisciante. Nessuno, neppure nel 2020, può sentirsi salvo, imperioso. Neppure gli adolescenti sono immortali e rischiano di portare a nonni e genitori un cliente indesiderato. La maschera del sorriso davanti ai bar e ai pub assomiglia a quella dei buffoni e degli improvvisatori che non conoscevano la Morte Rossa nelle stanze dionisiache del principe. L’icona resta un volto coperto, quello dell’infermiera indomita che stamattina riprenderà a correre da una corsia all’altra per salvare uomini e donne. Non indosserà la maschera della morte, ma la preziosa mascherina della salvezza.

Alessandro Moscè

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