NON SEI MORTA, ROMA

Racconto invernale

Gemma è un’infermiera con la coda di cavallo. Una criniera liscia, rivolta all’indietro, di colore a metà tra il fulvo e il castano: una tinta che la fa assomigliare ad una piccola leonessa in cattività. Nonostante la sua mole, si sposta con passo rapido. E’ decisamente in sovrappeso, con la pancia gonfia, i seni cadenti e un viso tondo, da donna incinta. Brufoli ed efelidi contornano gli occhi di bue, sporgenti. Indossa gli zoccoli bianchi ed il suo tip tap, udito da lontano, sembra il tacco sonoro di una ballerina di varietà degli anni Sessanta.
Gemma lavora in uno dei reparti di Medicina dell’Ospedale Santo Spirito di Roma, nel Lungotevere in Sassia, la più antica struttura sanitaria d’Europa. Indossa il camice bianco da operatrice con un attestato di qualifica che la distingue dalle OSS e dalle addette alle pulizie del reparto vestite con un’uniforme celeste a mezza manica e con lo spazzolone sempre in mano. Misura la pressione, la temperatura corporea, esegue elettrocardiogrammi, distribuisce pastiglie ad orari ben definiti e quando fa il turno di prima mattina, mentre albeggia sui colli romani e il cupolone di San Pietro spunta come un pugnale tra le tonalità fosche del cielo, beve il suo primo caffè nella saletta della ristorazione del personale medico e paramedico.
Per dimagrire ha deciso di eliminare la pasta dolce con la marmellata di albicocca e il cappuccino schiumoso del bar. Mangia le fette biscottate, non più di due. Poche volte al mese le spetta il turno di pomeriggio, ma quello notturno è una prassi settimanale. Gemma non guida di notte e si sposta con un autobus della linea Atac, il numero 46 che ferma proprio davanti all’ingresso dell’ospedale. Di notte beve acqua, orzo, thè, legge i giornali in cui imperversa il gossip e guarda distrattamente i programmi televisivi tenendo il volume basso, sperando che non succeda nulla di imprevisto ai pazienti. Di solito preferisce le trasmissioni in cui i concorrenti vincono qualcosa e che vengono replicate tra un giorno e l’altro. E’ cresciuta con la tv commerciale, con i quiz. Spesso nella sua postazione rimane sola. Si diletta a comporre le parole crociate che non finisce mai. Sbuffa, si alza in piedi, apre e richiude un piccolo frigorifero, si affaccia alla finestra e viene invasa dal fluido fluorescente dei lampioni che costeggiano la strada e i marciapiedi in prossimità di Città del Vaticano, le cui mura danno l’idea di un castello medievale ben protetto da agenti esterni. Guarda il monitor dove compaiono le prime quattro stanze del reparto riservate alle donne. C’è chi dorme, chi è accasciato sulla poltrona, chi non riesce a star fermo sul letto e si gira in continuazione, chi russa, chi esce per fare due chiacchiere.
Una volta è accaduto che Gemma, nubile, sia stata corteggiata da un signore di una certa età affetto da diabete di tipo 1, insulino-dipendente. Gemma, che si sente ben poco piacente, che non ama affatto il suo corpo, che dopo qualche sporadica uscita fino ai trent’anni non ha più avuto relazioni intime, si sforza di dimenticare il suo fisico, come fosse l’emanazione di una materia estranea, un di più che non utilizzerebbe, se potesse, neppure per espletare le esigenze fisiologiche. Il suo corpo massiccio è un involucro smagnetizzato.
Gemma ha avuto paura di quelle avances, seppure l’uomo le infondesse una certa fiducia. Era il classico galante di altri tempi, con le tempie foderate di capelli bianchi come il latte, il volto da generale austriaco del primo conflitto mondiale, i baffi sottili, la bocca allungata. Distinto, con una voce possente. Sempre in vestaglia rosso bordò, con uno stemma sul lato sinistro da militare di rango che impartisce ordini.
-Verrebbe a cena con me?- le disse con estrema naturalezza, incrociandola in corridoio, abbozzando un sorriso.
-Mangio poco, nonostante la stazza.
-Allora non dovrei spendere granché. Anche io mi limito. Il diabete è un cagnaccio che ti insegue abbaiando, che non ti dà tregua. Se lo assecondi ti aggredisce, ti strappa le vesti. Niente dolci, cibo poco condito, eliminazione delle pietanze allettanti. E pensare che sono un buongustaio.
-Non le converrebbe una cena, sarebbe uno spreco.
-Un aperitivo? Food e beverage. Conosco con posto dove offrono torte salate squisite e un vino rosso da degustare con una musica da sottofondo che entra nell’anima.
-Sono astemia.
-Il cinema in una delle tante multisale? Ha visto il film su Bettino Craxi? Quell’attore è la copia fotostatica del leader socialista, che fu un povero capro espiatorio, me lo consenta.
-Non guardo film, preferisco i programmi di intrattenimento di mezza sera o delle ore piccole.
-Una passeggiata ai Giardini di Villa Borghese, al bioparco, ai laghetti? Lo ha mai visto l’orologio ad acqua?
-Sono pigra, non cammino. Lavoro e casa. Sono ligia solo al dovere, non mi concedo spazi alternativi.
-Una vita monastica, direi.

-E’ sposato?
-Vedovo.
-Mi dispiace.
-Sono passati dieci anni da quando Adelaide mi ha lasciato. Un carcinoma mammario esteso al fegato. Un supplizio, un calvario durato tre anni. Chiudiamo la parentesi, non rattristiamoci. E lei?
-Single, si dice così, no? Una volta sarei stata una zitella in piena regola. Acida, per giunta.
-Usciamo, mi dia retta. Ho bisogno di compagnia. Ne ho bisogno disperatamente. Mi manca l’aria, mi sento un’ombra tra le ombre, le stesse della mia camera, della cucina, del bagno. La mia casa è un androne cavo, un bunker. Non posso più sopportare la solitudine. Sono un avvocato che ha deciso di interrompere la sua professione, di andare in pensione prima del tempo perché non sopportavo le aule di tribunale, i giudici, i colleghi, i clienti. Ormai i giuristi sono truffatori legalizzati, barbari in abito da sera. Aggiungo che non ho figli e neppure parenti stretti.
-La prego, non mi metta in difficoltà. Non insista. Non voglio condividere nulla. Sono un orso.
-Neanche quattro passi a Ponte Milvio, nella zona dove abito, in via Flaminia e dintorni?
-Meglio di no. Ora torno di là, signore. Mi scusi.
-Le ho fatto una brutta impressione?
-Tutt’altro, ma non sono qui per un’agenzia matrimoniale.
-Non le ho proposto il matrimonio.
-La prego.
Il dialogo si chiuse bruscamente. Gemma, nei giorni successivi, evitò l’avvocato fino alle sue dimissioni dall’ospedale. Dopo un mese si fece spostare nel reparto delle donne.
La paura del contatto fisico la rende ansiosa, quasi sul punto di perdere il controllo. E’ una fobia che non riesce a superare. Quei chili di troppo la frenano. Si sente inadeguata, incapace di spogliarsi, di farsi vedere nuda, di abbracciare, di baciare, di amare. Incapace di lasciarsi andare.
Gemma si trascura, veste male. Indossa i maglioni di lana nera, fina, che arrivano fin sotto le natiche. Indumenti di una taglia più grande, come fossero strani grembiuli. Mai un pantalone alla moda, una scarpa che non sia da ginnastica. Mai un completo colorato, vivace, un trucco, un taglio di capelli diverso. Ha represso la sua femminilità: è un essere umano senza sesso e senza desiderio. Vuole semplicemente passare inosservata e non rendere conto a nessuno, se non alla caposala e ai medici del reparto. Quando si chiude in casa ci resterebbe per sempre, se potesse, senza uscire per recarsi al supermercato a fare la spesa, per acquistare gli alimenti necessari alla sua sopravvivenza. Pasta, olio, zucchero, sale, prosciutto cotto, lattuga, frutta, datteri. Al bancone paga in fretta andando alla macchina con due sporte, sempre di pomeriggio, appena finito il turno della mattina. Ha uno sguardo ceruleo, fisso e perso.
Gemma è un automa, una macchina che riproduce i movimenti sbrigativamente. Però quando il ricordo va a sua madre le si inumidiscono gli occhi. Non c’è più da un anno. Suo padre non lo ha mai conosciuto. Nella saga infinita di sangue, è morto che aveva due anni. Faceva parte del giro della malavita di un certo peso, la Banda della Magliana, anche se non era un boss. Si sentiva invincibile ed è stato freddato da un colpo di pistola alla tempia. Glielo ha riferito sua madre quando non era più una ragazzina. Questa macchia scura del passato, come un segno refertato in un esame radiografico, non è mai sparito. Ha offuscato la sua gioventù rendendola anaffettiva. Gemma teme chiunque, anche la vicina di casa con l’alopecia che le suona il campanello per chiederle un po’ di zucchero.
Sono lontani i tempi in cui vestiva di nero ed era una dark lady con i capelli cotonati, svettanti, le camicie nere o rosso scarlatto. Le piaceva lo stile gotico e ascoltava i complessi musicali, in particolare la linea new wave: Cure, Cult, Siouxsie and the Banshees, Joy Division. Era sfacciata e si contrapponeva ai paninari, i figli dei papà che ammiravano i Duran Duran di Simon Le Bon e compravano tutti il Monclair, il piumino degli adolescenti della Roma bene. Gemma indossava il chiodo, un giubbotto di pelle con le borchie, e gli anfibi voluminosi. Si passava il rossetto viola sulle labbra e si trasferiva dalla Salaria a Trastevere, dove si aggiravano i punk con i capelli rossi completamente rasati ai lati. Avrebbe voluto avvicinarli, baciarli tutti. Le sue emozioni le appuntava in foglietti di carta che stracciava e riduceva in mille pezzi.
In questi giorni la sua ansia è aumentata dall’allerta per il Coronavirus e per lo stato di emergenza che durerà addirittura sei mesi, come al tempo del colera di Napoli. Dicono che il capo della Protezione Civile potrà requisire alberghi e che all’Ospedale Spallanzani sistemeranno i malati in quarantena, che sarebbero in aumento anche in Europa. I cinesi hanno introdotto questa malattia infettiva e a Roma le farmacie si affollano di gente che chiede le mascherine protettive. Due soli casi in Italia, appunto, ma nel mondo sarebbero molti di più di quelli ufficialmente dichiarati.
Gemma si lava le mani in continuazione ed evita i luoghi affollati. Nella borsa ha due flaconi di amuchina con la soluzione disinfettante concentrata. Conserva sin da piccola il terrore dei germi e dei batteri. Più che mai adesso, con questa ondata micidiale proveniente dall’Oriente: un genoma a filamento singolo con un nucleo elicoidale. Il virus farebbe pensare ad una marca di birra, ma c’è poco da ridere. Se arrivassero i pazienti anche al Santo Spirito? Se dovessero diventare migliaia e l’ospedale dove lavora fosse inondato da soggetti portatori di questa infezione che al microscopio ha le sembianze di una corona, di una ghirlanda per addobbare le feste? Come si comporterebbe Gemma? Non riuscirebbe a fare il suo mestiere e si dovrebbe allontanare. Andrebbe nel panico, sconcertata e insonne per l’epidemia. Si chiede quanta gente avrà avvicinato la coppia ricoverata allo Spallanzani. Quanto dista il Santo Spirito dall’altro ospedale? E la sua residenza? L’aria rarefatta la disorienta. Le goccioline di saliva potrebbero essere dappertutto, anche nel cellophane che ricopre le mele e le arance.
Gemma vorrebbe andarsene, fuggire. In un’isola deserta, in un nascondiglio, come da bambina. In una cantina fredda, dove nessuno potrebbe raggiungerla neanche telefonicamente. Si coprirebbe con maglioni e sciarpe. Finirebbe per vivere nell’isolamento, non più nella solitudine. Capisce che i suoi pensieri smembrati sono insani. Ogni tensione si tramuta in un annebbiamento, nel battito cardiaco accelerato. Il suo comportamento è eccessivo, ma non riesce a fronteggiarlo.
E’ così facile morire, distruggere la stessa Roma, la sua storia, i palazzi, i monumenti, perfino il Colosseo? E dopo? Dopo che succederà? Gemma cadrà nell’abisso con le pietre secolari della città eterna, in un girone infernale, dantesco, in torbido meandro senza luce, cieco come i suoi occhi bianchi, come quelli di tutti i morti condannati ad un riposo inerte, senza più un nome e un cognome, un tatto distintivo? E se l’epidemia del Coronavirus fosse solo l’inizio di una catastrofe, di un eccidio naturale, o peggio ancora creato in laboratorio per annientare l’umanità? Chi può smentire che la fine del mondo si avvicinerà con malattie a rapida espansione, con una calamità peggiore dello tsunami del 2004 che distrusse le coste dell’Oceano Pacifico in Indonesia, in Sri Lanka, in India? Se una vasta area della terra sarà mangiata da virus incontrollabili, uno dopo l’altro? Sua madre le direbbe di smetterla, di uscire di casa, di divertirsi, di sposarsi.
Gemma infila il cappotto ed esce. E’ l’ora di cena e la temperatura è mite. Passa davanti ad un’autorimessa, ad un ristorante giapponese con le serrande abbassate, ad un bar che sta chiudendo. Si affretta e sfiora appena una ragazza paffuta con un cane al guinzaglio, un bassotto nano. Vede le insegne di un centro commerciale risplendere di giallo.
Gemma incomincia a correre. Erano anni che non lo faceva. La coda di cavallo sobbalza e si sente leggera. Sgonfiata, ristretta, asciugata. Gemma allunga il passo nel cuore di Roma. Le luci le rimbalzano sugli occhi e si assemblano in uno strano fuoco, in un veloce zigzagare a fasci da un lato all’altro. I fari delle auto piovono dal basso e dall’alto di un cavalcavia. Castel Sant’Angelo vibra nella tentazione di un volo della statua in bronzo. Il Vittoriano è una fisarmonica che da Piazza Venezia si allarga stirandosi, modificando le sue fattezze per la Dea Roma e per il Milite Ignoto. Gemma si è slacciata il cappotto e non smette di correre. Non ha il fiatone, stranamente. Roma potrebbe crollare, diventare un cumulo di macerie, anche in Vaticano, con il colonnato del Bernini ridotto in frantumi e detriti. La morte della capitale annuncerebbe la fine del paese, di ogni città risucchiata nel nucleo interno, sotto la crosta terrestre.
Ma no, la corsa di Gemma, nella sua Roma, è rivitalizzante. All’improvviso si sente una nuova carica esplosiva che neutralizza la cupezza, una gioia salirle dal cuore, dai polmoni, ripulendo il fumo dei pensieri. Griderebbe, direbbe che le sue gambe sono forti, non indolenzite, che le braccia sono slanciate, coordinate nella corsa come quelle delle atlete magre che si esercitano nella pista di atletica dello Stadio Olimpico. Lo vedrebbero anche i passanti che la sua andatura sta cambiando, che è più sciolta. L’autocommiserazione ha subito un arresto con la corsa e Gemma si rende conto che nulla va sprecato, che la vista di Roma trasmette un’insolita, caritatevole felicità. La prossima volta indosserà una tuta e si sentirà libera in un volteggio che sfavilla da ogni planimetria invadendo il suo animo, resuscitandolo. Le vie e le piazze sono un varco infinito, uno scorcio meraviglioso, un allestimento all’aperto. Gemma si è lasciata rapire dalla bellezza della capitale del mondo, come fosse in visita per la prima volta.
Nei prossimi giorni ripercorrerà minuziosamente Roma: il Foro Traiano, la Basilica di Massenzio, il Colosseo, il Tempio di Venere, la Domus Aurea. Si riempirà di una luce dolce, dorata, di una tenerezza per la città criticata e amata. Le sue impronte sull’asfalto assorbiranno un effetto rigenerante. Con una Roma così suadente le palpebre di Gemma si spalancheranno. Si distenderà respingendo le angustie di sempre. Non rimane che correre, correre contro le cattive abitudini, contro ogni inverno interiore.

Alessandro Moscè

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