BALLANDO CON GINGER E FRED

Federico Fellini con Ginger e Fred (1986) voleva manifestare, in primo luogo, la sua sofferenza. Quel film è stato e rimane un gesto d’accusa al consumismo spietato, alla pubblicità invasiva che copre, che interrompe, che taglia in tronconi un repertorio. Con Ginger e Fred non venne liberato l’impulso surreale di chi rappresenta le relazioni dell’inconscio o la satira ambientata in una cittadina marginale, di chi mostra un ritratto rifacendosi al musical, a Fred Astaire e a Ginger Rogers. Quella volta il maestro volle fare un film di ispirazione sociale, dal tratto sornione e altrettanto impietoso. Non c’è spazio per l’amarcord, per la nostalgia del passato giovanile, per le creature angelicate, spirituali. Se è vero che Ginger e Fred vengono recuperati per un’esibizione televisiva di due personaggi, Amelia Bonetti e Pippo Botticella, attempati ballerini di tip-tap ormai fuori dal giro, c’è dell’altro. Il mondo è cambiato, non è più a immagine e somiglianza dei due sognatori, che non sono neppure in salute. Ginger e Fred sembrano figurine da collezione, reperti archeologici per una televisione che ha invaso le case degli italiani, dove tra lo spettatore, il fruitore, e il protagonista, l’attore, si è creata una sorta di osmosi passiva. Lo spettacolo è abbrutito, ridotto ad un esercizio di individualismo, mentre i media si caratterizzano per una continua mercificazione. Il genio è agguantato nelle spire del prodotto che lo avvolge e lo offusca: tutto si vende, tutto ha un prezzo di consumo e non di durata. Ginger e Fred non ci stanno, vogliono andarsene da quel set. Federico Fellini anticipa il vuoto dell’intrattenimento, del commercio all’ingrosso, dell’involucro di un programma, di una storia, di un’immagine stereotipata. Il presentatore è un guru, la cultura del ballo ridotta a comunicazione sfasata, ad una barocca rassegna di persone prive di talento, che parlano ad un pubblico svogliato, privo di passione. I riflettori si sono spenti e l’arte è stretta in una carta oleata: il contenitore ha più valore del contenuto. Marcello Mastroianni e Giulietta Masina sono schivi, teneramente preoccupati per il loro sketch, quanto illusi di ritrovare un teatro di gente calorosa. Questo film è tra i miei preferiti, decadente e demistificante. Dimostra come la televisione dei format sia ripetitiva e ipocrita. Il talento è represso e la piattaforma viene costruita come un gioco da tavolo. Il ritorno a casa di Amelia e Pippo è frettoloso, come il desiderio di staccare la spina, di non rientrare più, occasionalmente, in un varietà che di attraente non conserva nulla. La rivista e l’avanspettacolo erano un’altra cosa: ritmo, fantasia, giostra, favola. La transizione dall’arte al fatturato, da un universo di umanità alla sostenibilità del business, ha reso asettico l’effetto cinematografico, ogni armonia, le stesse battute, i movimenti scenici e dunque l’auditorio, il costume. Federico Fellini capì che il panorama visivo e sonoro sarebbe diventato una realtà estranea per una fruizione stordita. La poesia sparisce, come le forme di libertà anticonformiste. Alla televisione, dopo più di trent’anni da quel film, oggi si appaia la galassia del web, altrettanto disorientante. Ma Fellini non c’è più.

Alessandro Moscè

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