IL CAPPELLO DI FEDERICO FELLINI

Cento anni dalla nascita del grande regista riminese Federico Fellini (Rimini 1920-Roma 1993). Cento anni di sogni che persistono nell’amarcord prima della nascita, dell’infanzia e della giovinezza, in un’inquadratura solenne che varca ogni soglia. Satiro ma non ironico, amante della fanciullezza pascoliana che stupisce, della leggerezza del circo e dei clowns, delle donne morbide nell’evasione tracciata con i disegni e gli schizzi a matita. Autore di una tradizione nascosta, tanto da valergli l’appellativo di felliniesque, che ha dato un senso alla sua esistenza indugiando amorevolmente sui particolari più fantasiosi e scenografici da intrepido membro di una società artistica anticonvenzionale, contraria ad ogni realismo stereotipato del secondo Novecento. Messaggero di un’Italia vagabonda, costruita sulle accozzaglie, le stesse di Prova d’orchestra, dove la tromba, il violino e l’oboe sono i mezzi per parlare e non per suonare, o come nell’ultimo film, La voce della luna, dove la gnoccata precede il frastuono di una discoteca e di un valzer a due nell’intervallo del silenzio e nel duetto degli innamorati di una certa età con uno straordinario Paolo Villaggio nella parte dell’ex prefetto Gonnella, ossessivo e sospettoso di congiure. Federico Fellini è stato un trovatore di personaggi sfasati, di mattocchi romagnoli e romani con una loro genialità, di chi cercava fortuna nell’avanspettacolo degli anni Trenta e Quaranta, nelle forme di intrattenimento teatrali, popolari. Ha amato il mondo dei comici, dei fumetti, dei giornali umoristici. Ma non gli bastava, perché il suo desiderio si spingeva oltre il comprensibile, tanto da studiare e approfondire le teorie di Gustav Jung, la parapsicologia, i segni astrali. Il regista pensava ad un’Italia minore, di borghi arroccati e disabitati, di finestre screziate, di cittadine diverse tra loro da catalogare, da dividere, da raccontare con le creature umane, negli interni delle case, tra l’odore dei sughi di pomodoro e delle minestre riscaldate, nelle vesti sacrali delle suore, negli esterni con le piazze a cerchio e i negozi addobbati, fino a non distinguere più la linea di demarcazione tra privato e pubblico nella luce mai ferma, dalle tonalità sfumate (come dichiarò a Goffredo Fofi in un’intervista del 1992). E’ stato il fantastorie in transito dell’umanità che sospira per la morte, più una prigione che un volo, nell’imponderabile sfera onirica del sogno tra i sogni. Cosa rimane nel 2020 di Federico Fellini, se anche un grande scrittore, il francese Daniel Pennac, gli dedica un libro, La legge del sognatore (Feltrinelli 2020)? Si tratta di un omaggio di assoluta libertà, per cui il regista rinasce in un carnevale nostalgico e creativo, scarcerato dalla memoria, dalla dimenticanza. “Il maestro desiderava davvero resuscitare? Era questo il tema della sequenza. Era sicuro, Federico Fellini, di voler resuscitare? Avrebbe retto a quella prova? Una resurrezione non era mica uno scherzo! Il ritorno alla luce del giorno, certo, ai profumi della vita, va bene, ai carciofi alla romana e alle polpette di bollito, era una bella tentazione…”. Pennac travasa il “confort dell’eternità” mano nella mano con Giulietta, passeggiando nello spazio e nel tempo. La stessa intuizione l’ho avuta nel mio Gli ultimi giorni di Anita Ekberg (Melville 2018), ma a risorgere dalle ceneri della Fenice è la diva dagli occhi di ghiaccio, in una traversata lungo i mari con i compagni di via: Giulietta Masina, Marcello Mastroianni, Tonino Guerra ecc. Federico Fellini guida il trapasso fino al giorno della ripartenza, all’alba, dalla stazione di Rimini per recarsi a Roma e ricominciare da capo la rappresentazione della vita. L’allusione è a Mastorna, alla sceneggiatura per un film mai realizzato e trasformato in un vero e proprio romanzo. Fellini, per tutta la vita, ha inseguito una fisima: fare come Dante Alighieri. Se ne parlò a partire dal 1965, da quando lo scritto fu ultimato in una villa di Fregene, dove il regista soggiornava per scrivere il suo soggetto. E in una lettera a Dino De Laurentiis, il produttore con il quale ebbe un rapporto controverso, diffidente, si confessò per dimostrare che la vita e la morte si somigliano: “Se per cortesia, per stanchezza, per amicizia, o per vanità mi mettessi a chiacchierare sul Mastorna, e dicessi che ancora una volta è un viaggio, immaginario, un viaggio nella memoria, nel rimosso, in un labirinto che ha un’infinità di uscite, ma solo un ingresso e quindi il problema non è uscire ma entrare e spudoratamente continuassi a snocciolare definizioni e proverbi, non credo riuscirei a suggerire il senso del film, che io per primo non so cos’è”. Giuseppe Mastorna, musicista, precipita a bordo di un aereo di linea che vola ad alta quota. Ma non si accorge di morire, anzi è convinto di essere scampato alla morte atterrando in un campo di evenienza. Il protagonista si trova nell’aldilà, dove tutto è brusio, rimbombo e caos. L’aldilà si annida in una grande stazione sotto l’immensa volta di treni che partono e arrivano. La gente smarrisce la propria identità e le città di destinazione sono incomprensibili, come ogni indicazione nei cartelli, come i dialoghi sconclusionati nei bar. L’ìnconscio è il punto d’incontro tra le dualità: la mente e il corpo, la storia e l’immaginazione, l’amnesia e il vuoto. L’inclinazione felliniana procede istintivamente, in un anacronismo simbolico e in un fenomeno mai isolato, ma polifonico. Si pensi al lungometraggio Roma, dove la città sotterranea e non più monumentale, miracolosa della Dolce vita, non sembra appartenere ai quartieri di ieri, ma ad un fumo mefistofelico mischiato al vento di ponente che spira da prospettive impossibili, prima di tornare in superficie tra i bordelli a poco prezzo e i defilé degli attempati ecclesiastici. Federico Fellini disse che i suoi film erano sempre una partenza senza arrivo definitivo, senza un posto che non fosse spirituale, come i volti delle comparse, dalle quali spesso è emerso, casualmente, un protagonista. Il saltimbanco e pagliaccio Tristan Remy accompagnò Fellini nella preparazione del film I clowns ad incontrare i vecchi inventori dei tendoni, dei fuochi d’artificio, i trapezisti, i domatori. Perché sotto il cappello del regista si annidavano pezzi d’antiquariato, rammemorazioni in bianco e nero, miniature poetiche, frange di anni irripetibili dove fascisti, fannulloni, burattini, tabaccaie e malinconiosi vitelloni amalgamavano il refrain cinematografico più improvvisato che mediato in un copione. Anche La legge del sognatore di Pennac è una favola, una maturla, il racconto di suggestioni spontanee e nostalgie da varietà. Per scavalcare la morte, questa sconosciuta…

Alessandro Moscè

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