GLI SCRITTORI CATTOLICI E UN LUOGO COMUNE

Gli scrittori cattolici sono ancora una categoria a parte, come lo erano negli anni dell’ideologia che confinava alcuni autori, seppure di un certo rilievo, in un cerchio chiuso? Guardati con diffidenza, di sbieco, addirittura giudicati con pressapochismo e faciloneria? La convinzione è che questo battistrada non sia ancora abbandonato da una certa parte dell’editoria e nella concezione generica della critica italiana. Se digitiamo su Wikipedia, la categoria “scrittori cattolici” si apre con l’apposita pagina e la lista rigorosamente presentata in ordine alfabetico. Nel Novecento ricordo Clemente Rebora, Mario Pomilio, Giorgio Saviane, Michele Prisco, David Maria Turoldo, Giovanni Testori. Oggi potrei menzionare Alessandro Zaccuri, Luca Doninelli, Davide Rondoni. Cioè coloro che ho letto e leggo tuttora. Perché è sbagliato non definire lo scrittore cattolico come un altro, né più, né meno? Non abbiamo mai detto “scrittore ateo”, “scrittore agnostico”, “scrittore comunista”. L’identificazione di settore sembrerebbe proporre un senso di appartenenza ad un movimento di natura politica, ad una consorteria. Eppure basterebbe leggere il Vangelo per rendersi conto che la materia prima è finemente letteraria: “Poco lievito fermenta tutta la farina”, lasciò intendere l’apostolo Matteo. O mettere in pratica il consiglio di Carlo Martini, l’uomo del dialogo non solo tra le religioni: “Prova ad essere capace di ascoltare cose molto diverse da quelle che normalmente pensi, ma senza giudicare immediatamente chi parla” (da Conversazioni notturne a Gerusalemme edito da Mondadori nel 2008). Giovanni Testori pose dei temi sconcertanti quanto assoluti nelle narrazioni Conversazione con la morte (Rizzoli 1978) e Interrogatorio a Maria (Rizzoli 1979), per citare due libri molto dimenticati. La sua tensione religiosa è dramma, domanda di senso, oppressione, come nelle stesse opere teatrali. Da editorialista del “Corriere della Sera”, il 20 marzo 1978, scrisse: “L’uomo e la sua società stanno morendo per eccesso di realtà; ma d’una realtà privata del suo senso e del suo nome; privata, cioè, di Dio. Dunque, d’una realtà irreale”. Fuori da una connessione strettamente materialista, l’uomo, ogni uomo, guarda sempre più in là. Scriveva Giorgio Saviane in Voglio parlare con Dio (Mondadori 1996): “Non c’è una regola per trovarti, Dio. Semmai è la regola a non avere regole che mi fa sperare di udire un giorno la tua voce”. La letteratura si muove nell’umano, e nell’umano c’è la morte, non solo la natura. C’è la confessione, il desiderio di un amore che non finisca mai. Anche Pier Paolo Pasolini fu attratto dalla figura cristologica proiettata sui suoi giorni per capire la destinazione di un viaggio cognitivo. Perché non c’è altro modo di penetrare a fondo la realtà che guardare dentro una sfera  civile, romantica, borghese. Su “Avvenire” del 21 agosto Roberto Righetto cita l’opera della francese Sylvie Germain, la quale propone gli spostamenti di un Dio in cammino che visita l’uomo, che pone la domanda ineludibile con il bussare alla porta del cuore, quello di Cristo (ma anche quello della peccatrice). Nell’opera Il libro delle notti (Rizzoli 1987) Sylvie Germain, andando a ritroso nella sua storia, abbraccia gli antenati in un’ombra di sorriso tra pini e faggi nei pressi di un’antica fattoria. I parenti, in un grido di ritorno, appaiono come erano sempre stati: lottano, amano e soffrono prima di addormentarsi nel sonno della morte. L’esempio ricorda proprio Pasolini che sonda il Vangelo, cinematograficamente, con un fare che non ha nulla a che vedere con il potere sovraordinato e metafisico, ma con un faccia a faccia nella relazione di volti, suggestiva e bruciante. Dunque viene dimostrato che il vis-à-vis differenzia più di ogni altra cosa: scandaglia silenziosamente, svela un’intimità autorevole perché non condizionata da pregiudizi. Antonio Spadaro, gesuita, teologo, direttore della rivista “La Civiltà Cattolica”, ha dedicato molti interventi al rapporto tra letteratura e religione. Ricordiamo in particolare Abitare nella possibilità (Jaca Book 2008), un libro compiuto in cui la correlazione tra la menzogna e la falsità da un lato e la vita e l’esperienza dall’altro, disegna la testimonianza, la malattia mortale e la terrestre visione nella resistenza della parola. Ma non possono esserci distinzioni tra cattolici e non cattolici nell’esame di una coscienza, di una fragilità, di una resistenza. La letteratura investe l’animo e lo deposita nella pagina. Non si può non citare Carlo Bo: Antonio Spadaro ne sottolinea la parola necessaria, che non è evasione o passatempo, ma spirito salvifico. Letteratura come vita, “che abbia la stessa qualità della vita”. Bo non ama mai l’astrazione, un certo distacco. Scriveva Flannery O’Connor ad un’amica: “Tu non scrivi al tuo meglio per restituire con gli interessi il tuo talento al Dio invisibile affinché ne disponga come meglio crede”. Siamo in un cammino di avvenimenti, nella realtà che si vede, che si sente, che si gusta e si tocca indipendentemente da un valore morale, da un desiderio di fuga o da un traino trascendente. Del resto Papa Bergoglio ha riferito a Spadaro su “La Civiltà Cattolica” (aprile 2013): “La santità io l’associo spesso alla pazienza. Non solo la pazienza come hypomoné, il farsi carico degli avvenimenti e delle circostanze della vita, ma anche come costanza nell’andare avanti, giorno per giorno”. Le inquietudini dell’uomo contemporaneo furono già espresse magistralmente da Mario Pomilio negli Scritti cristiani (Rusconi 1979) che partivano dal Concilio con una premessa nuova e interrogante: “Sovvertendo il luogo comune che voleva l’istituzione ecclesiastica dogmatica e bigotta, i padri conciliari avevano dimostrato, al contrario, di essere pronti a dialogare con tutti senza complessi”. Lo scrittore cattolico non è dissimile da qualunque altro scrittore. La sua patente è la stessa, come la sua radice. Parla e scrive con le stesse presenze interlocutrici e la stessa tensione gnoseologica, nello stesso confine tra l’io e il noi, tra la persona e la collettività. La fede, come la ragione, non contrasta con l’attualità, ma ne è parte integrante. Al centro rimane l’uomo, un mistero infinito, la ricerca di un punto di snodo. Il poeta Mario Luzi ammoniva in un’epoca successiva all’ermetismo e fondata specie su un’apertura spirituale: “La poesia non può essere scritta contro il mondo, ma è concepita dentro di essa”. Lo è per chiunque, credente e non credente. Togliamo le etichette e sarà più facile guardare il presente, enfatico e rumoroso, distruttivo. La definizione di scrittore cattolico andrebbe finalmente abolita.

Alessandro Moscè

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