ALEX BEER E LA VIENNA DECADENTE

I romanzi che tornano indietro nel tempo e illustrano un’atmosfera in presa diretta, sono quelli che vivono due volte: nel presente del lettore e nel passato di un’epoca decadente ricostruita, nello specifico, con accortezza, con i protagonisti che si muovono in superficie o sinistramente, tra le pieghe del malaffare dove abbondano, nello specifico, alcool e droga. Alex Beer (archeologa che vive a Vienna, è al suo esordio narrativo) con Il secondo cavaliere (e/o 2018) mette in scena la Vienna del 1919, decisamente in declino. Non più la ricca, lussuosa città centro nevralgico dell’Impero Asburgico e della monarchia austro-ungarica, ma una periferia anche nelle strade centrali, dove la fame, l’incuria, la delinquenza dei senza tetto hanno preso il sopravvento e dove sembrano resistere, come una volta, solo il Café Central e una pista di pattinaggio frequentata dai figli delle migliori famiglie. La Grande Guerra è finita e il suo strascico risulta pietoso, tanto che si continua ancora a sparare, ad uccidere senza una logica. Il protagonista del libro si chiama August Emmerich: trentasei anni, ma non un poliziotto qualunque. Intanto perché non è ancora entrato nella sezione omicidi (è un ispettore distrettuale sopravvissuto negli scontri sull’Isonzo), anche se ha i numeri per coronare la sua aspirazione: erigersi a funzionario integerrimo dinanzi alla legge per restituire ad una società dilaniata quell’ordine che manca dappertutto. Reduce dalla guerra, è rimasto ferito in una trincea. Si massaggia di frequente il ginocchio sempre più rigido dove è entrata una scheggia di granata, mai rimossa, che gli provoca problemi al tessuto connettivo e lo costringe ad assumere eroina per calmierare il dolore. Vissuto in un orfanatrofio, cerca il riscatto personale e una promozione nelle forze dell’ordine. Usa metodi non proprio ortodossi e le sue indagini, condotte con l’attendente Ferdinand Winter (“novellino che aveva appena concluso il periodo d’addestramento ed era più di peso che d’aiuto”), sembrano dare risultati. “Nelle settimane passate Emmerich aveva studiato nei minimi dettagli il modo di arrestare Kolja e i suoi complici. Li aveva pedinati e osservati, aveva atteso con infinita pazienza sotto la pioggia e al freddo, aveva persino unto qualche informatore”. Kolja è un trafficante, un losco delinquente che con la borsa nera ha fatto la sua fortuna a capo di un’organizzazione capillare e ben diramata nella Vienna dove i tram vengono riscaldati collegandoli alle linee elettriche. Le case sono fredde e in pochi possono permettersi il carbone. Migliaia di persone sono costrette a disboscare interi lotti di terreno, altri coltivano orti cittadini e vendono vestiti e gioielli. Altri ancora si cibano degli animali e tentano la fuga all’estero. Alex Beer ha scritto un romanzo storico, ma anche un thriller all’americana, in cui la caccia all’uomo riempie le pagine di una rincorsa mozzafiato. Il linguaggio scabro, saettante, è il modo migliore per velocizzare l’azione, il plot di una vicenda senza sbavature, sospesa tra la povertà più profonda e il tentativo di riprendere quota, costi quel che costi. Si ha l’impressione, nonostante tutto, che sia proprio l’apocalisse viennese il perno del romanzo, che il passato prema e ricordi che niente dura per sempre. Molti luoghi e personaggi sono realmente esistiti e Alex Beer ha interpellato i testimoni per cesellare il contesto ambientale del quale ha scritto.

Alessandro Moscè

 

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