I SOGNI E LE FAVOLE DI EMANUELE TREVI

Emanuele Trevi è tra gli scrittori italiani più geniali, e mi spiego. Geniale nel senso che sa ribattezzare la letteratura a modo suo, con libri strani che mettono a repentaglio ogni sicurezza, che si forgiano di dettagli, che scandagliano l’uomo e la donna imprudentemente, in storie fragili e lamentose, scritte da un segugio del genere sick-lit. Come capita a Roma, nel luglio del 1983, quando il ventenne Trevi incontra un fotografo americano che vive nella capitale, Arturo Patten. La vicenda raccontata in Sogni e favole (Ponte alle Grazie 2018) si attorciglia, all’inizio, nelle spire dell’artista conosciuto in un cineclub (“con l’odore di polvere e stoffe tarlate e legno marcio”) al termine di un film del grande Tarkowskij. Era un tempo, quello, in cui non esistevano i telefonini e la comunicazione online, per cui ci si poteva assentare per giorni o settimane e le persone “si pensavano con maggiore intensità”. Arturo Patten era lì e piangeva nella sala. Il film, appena finito, non consentiva più di vedere immagini, ma una superficie compatta di sabbia. La narrazione di Emanuele Trevi inizia nel preciso istante in cui i fenomeni cominciano a delinearsi negli aspetti dinamici della materia romanzo. Il pianto non è disperazione, ma la conseguenza stupita dell’espressione per il fotografo solo al mondo, in ammirazione del lungometraggio visto e assimilato con gli occhi del regista russo, di un “santo bizantino”. Tra il giovane e il fotografo nasce una sintonia proprio di sguardi, che permette all’operatore del cineclub, non ancora scrittore, di scorgere con altri occhi gli spazi, gli edifici, le prospettive, le dimensioni, gli equilibri, i contorni. L’esteriore diventa interiore, si insedia nella camera oscura, come la chiama Trevi (anima o psiche?). Arturo induce il ragazzo a scoprire la poesia di Pietro Trapassi, in arte Metastasio, e i suoi luoghi, in primis via dei Cappellari, dove era nato il 3 gennaio 1698. Chi era il secondo personaggio che come uno spettro si affaccia nell’esistenza dei sogni e delle favole, con tanta duttilità e disinvoltura? Un guitto, un improvvisatore all’epoca molto imitato. “Sogni, e favole io fingo”, recita l’inizio di un verso di Metastasio, al quale venne concesso il fregio di poeta cesareo da Carlo VI d’Asburgo. Inventare, anche fosse un pasticcio, è il motivo che lo rese mitico: fingeva e diceva la verità, trasformava un invito in una festa nel suo modo di fare centrifugo. Patten vive di sogni, di favole, ma non è un incantatore. Forse è un illuso, mentre Metastasio potrebbe essere stato un autentico illusionista. Il fotografo finirà per impiccarsi in un piccolo albergo siciliano: era un omosessuale malato di Aids. Scrive Emanuele Trevi: “Chi si uccide di fatto si spoglia di tutto il passato, se lo lascia cadere di dosso riducendolo a qualcosa di molto simile a un mucchio informe di vestiti spiegazzati. Non ci deve essere tanta differenza tra il familiare e l’estraneo”. Cosa si sa, in fondo, di chi conosciamo? E cosa si innesta nella paura della fine di tutto? Come può l’arte alimentare la fiamma dell’assoluto, della pienezza dell’esistenza, come forse fu per Patten e Metastasio? Esce dal sipario il terzo personaggio di Trevi: la poetessa Amelia Rosselli, anch’ella suicida, la cui ipertensione si insidiava nel pensiero, che “abitava in un condominio di fantasmi” e che si “sfibrava” convinta di essere perseguitata dalla Cia. Roma è un arcaico mondo che si sfalda tra le strade, nei portoni, nelle piogge, nei capelli corti e corvini della figlia di un eroe della Resistenza. E quindi, per chiudere il cerchio, arriva Cesare Garboli, il quarto simulacro della storia, che si poteva odiare o amare. Professore, comunista, rigoroso filologo, che andò a vivere a Vado di Camaiore, a sud-ovest delle Alpi Apuane, in un posto “velato di irrealtà”, dopo i cinquant’anni. Trevi conferma la convinzione che ogni opera manifesta la vita, e che l’opera è un volto, una sindone. E dei luoghi, di Roma, specie degli interni domestici, che cosa ricordare? “Di ogni casa vuota, noi possiamo solo dire che qualcosa lì dentro è accaduto”. Sono i nodi della vita: l’amore, la tristezza, il vuoto.

Alessandro Moscè

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