Patria (Guanda 2017) è un romanzo in corso di traduzione in tutto il mondo e che, finora, ha venduto in Spagna centinaia di migliaia di copie. E’ composto di ben centoventicinque brevi capitoli come fossero parti a sé stanti di un universo sviluppato prevalentemente intorno a fatti di sangue. Definito dalla pubblicistica un libro commovente, formidabile, è stato scritto dal basco Fernando Aramburu (ospite al Festival di Mantova, docente di spagnolo in Germania fino al 2009, ora si dedica solo alla scrittura e alle collaborazioni giornalistiche). La trama del libro verte sulle vicende di due famiglie fortemente legate, Joxian e Txato, i cui componenti sono cresciuti nello stesso paesino alle porte di San Sebastián, inseparabili da generazioni. Lo sono in particolare le mogli, Miren e Bittori, così come i figli, compagni di giochi e di studi tra gli anni Settanta e Ottanta. Improvvisamente arriva la tragedia: Txato, con la sua impresa di trasporti, è preso di mira e dopo una serie di messaggi intimidatori ai quali non si vuole piegare, cade vittima di un brutale attentato. Bittori se ne va, non riuscendo più a vivere nel posto in cui le hanno fatto fuori il coniuge, un luogo in cui la morte violenta spaventa e ossessiona gli abitanti che vigliaccamente la evitano. Passano gli anni, ma Bittori non rinuncia a pretendere la verità sull’accaduto e a farsi chiedere perdono: “Fino a quando non lo avrò non penso di morire”, dice. Cerca la via della riconciliazione con le persone coinvolte nell’omicidio e volta le spalle alla religione, pur essendo stata molto devota da ragazza. “Bittori rileggeva lo scritto pieno di cancellature. Lo copierò in bella domani mattina. Allora le venne un primo conato di nausea. Uh, mamma mia. Subito dopo un altro. Al terzo, sparse una boccata di vomito sul tavolo, non riuscì a evitarlo, e naturalmente sulla lettera e in parte anche sui fogli. Scostandosi dal tavolo, cadde o si lasciò cadere, non sa bene. Ricorda, quello sì, che la fitta al ventre era stata così intensa che l’aveva costretta a mettersi in posizione fetale sul tappeto. Non per quello era pronta a credere in Dio come fanno altre persone quando giungono di fronte al grande buio. A cosa serve? Se muoio, muoio. Fece uno sforzo per trascinarsi fino al telefono, lì vicino, tre metri, sopra il comò, eppure così lontano”. Con la persuasione della saga, Fernando Aramburu ha raccontato una comunità attonita e una storia di famiglie comuni, di affetti feriti, di sodalizi perduti. Qualcuno ha paragonato Patria a La peste di Albert Camus o a La brava terrorista di Doris Lessing, perché l’istinto di sopravvivenza riesce a stemperare il dolore, ma niente rassicura e risarcisce per una sottrazione pagata a caro prezzo. Gli avvenimenti si accomunano ad uno spaccato collettivo, alla guerra, ad un pensiero totalitario (la lotta armata dell’Eta, organizzazione composta da antifranchisti nei paesi baschi). Il destino si pone al di là del mondo e delle sue ferree regole. I personaggi, consapevoli di ciò che li aspetta, sembrano impossibilitati a capire fino in fondo ogni triste repressione: Aramburu dà voce agli assassini e ai vinti in pari misura, nella ripercussione della sconfitta di tutti, come succede nei fatti terroristici, nello specifico durati più di trent’anni. Gli indipendentisti dell’Eta, infine, hanno detto addio al combattimento proprio mentre avanza il pericolo dall’Oriente con i jiadhaisti che utilizzano i furgoni lanciati a tutta velocità per travolgere i passeggeri nei viali delle grandi città come Barcellona.
Alessandro Moscè