Blaise Pascal, nei suoi Pensieri (1670) scriveva: “È così necessaria la follia degli uomini che non essere folli vorrebbe dire esserlo in un altro modo”. Forse per rendere più sopportabile ogni forma di incomprensione del cervello umano, è rimasto l’animale della follia e della libertà dal lontano 1973. Non una statua in marmo di Michelangelo, ma una realizzazione in legno e cartapesta alta quattro metri, opera del nipote di Franco Basaglia (Vittorio), lo psichiatra al quale si deve la famosa legge 180 del 1978 che aprì i manicomi e pose fine alle dure reclusioni dei malati di mente, che erano costretti, fino al quel momento, a sopravvivere in vere e proprie strutture di contenzione tra camicie di forza ed elettroshock. Marco Cavallo è azzurro, filiforme, con un muso prominente nel gesto del nitrire con felicità e una pancia aperta, dove possono essere deposti sogni, richieste, doni, pensieri di qualunque tipo. Quella pancia come fosse un giacimento delle sindromi psicotiche e nevrotiche, delle allucinazioni, dei deliri e delle paure da ricucire o da accantonare: una macchina teatrale, uno strumento artistico, un’installazione. Il cavallo è stato ribattezzato tante volte, sin dalla sua prima apparizione all’interno del manicomio di Trieste, alla cui costruzione contribuirono i laboratori creativi, a significare che la fantasia non può essere normalità, ma stravaganza, fuoriuscita da una norma sociale. Quel cavallo era indisciplinato come un vero animale della sua stazza, e lo è rimasto. Le sue dimensioni non hanno sempre consentito lo spostamento, tanto che a volte si sono causati degli inconvenienti, come la rottura di vetrate e muri in cartongesso, cadute ecc. Il cavallo ha permesso, con la sua imponenza, un’altra cura, il contatto con l’esterno, un’interazione immaginaria, la fuga dalle camere del male, silenziose e maleodoranti. Disse Franco Basaglia: “Marco Cavallo, come simbolo della libertà da contrapporre alla miseria della psichiatria, fu un’esperienza unica. Ancora oggi, a distanza di tanti anni, fornisce materiale per accese dispute sul senso e la convenienza di utilizzare un simbolo quale elemento rappresentativo del cambiamento, intorno al quale possano riunirsi uomini che vogliano e siano in grado di riconoscersi in una speranza”. Marco Cavallo poteva correre in libertà, galoppare, mostrare il suo fascio di muscoli, la sua potenza ed eleganza. Non un gatto o un cane, ma un cavallo. E’ stato salvato dalla macellazione come gli uomini, come chi è uscito dall’ospedale psichiatrico, anche coloro che non ce l’hanno fatta a sopravvivere, che sarebbero rientrati volentieri perché soli, abbandonati, perché si pensava ancora, nelle famiglie, che la follia fosse contagiosa al pari dell’influenza, specie tra i bambini. Era incoscienza, ma non quella dei manicomi. E Marco Cavallo riscattò il diverso.
Alessandro Moscè