Valeriano Trubbiani nasce a Macerata nel 1937. Dal 1962 partecipa a rassegne e mostre nazionali ed internazionali ottenendo premi e riconoscimenti. Il suo linguaggio si fa sempre più personale e l’inserimento di elementi zoomorfici aggiunge cruda ironia alle opere facendone un caso a parte nella giovane scultura europea. Nel 1968 si trasferisce ad Ancona dove continua la sua ricerca con nuove soluzioni di impianto iconico e tecnico e con l’inserimento nelle opere del volatile, protagonista-vittima del ciclo “Lares familiaris”. Nel 1975 inizia il ciclo delle grandi sculture “T’amo pio bove” e l’anno seguente si trasferisce a Candia, nelle vicinanze di Ancona, in una casa da lui progettata, in cui realizza anche uno studio ed un’officina da fabbro. Nel 1980 Federico Fellini lo invita a collaborare alla scenografia di “E la Nave va”. Tra il 1990 e il 1991 è presente con una mostra itinerante nei più importanti musei del Giappone. Nel 1992, con opere grafiche, propone “Un punto per Piero”: mostra itinerante dedicata a Piero della Francesca che toccherà varie città del mondo. Ha esposto a Johannesburg, El Cairo, Malindi, Teheran, New York, Montreal, Graz, Lisbona, Budapest, Londra, Parigi, Amsterdam, Bruxelles, Berlino, Helsinki, Anversa, Lugano, Atene.
Sculture, ambientazioni, disegni e incisioni. Si ritiene soddisfatto del suo lavoro?
Il mio percorso immaginativo presenta movenze teatrale ed è scandito in cicli tematici. Mi interessa la ricerca del senso più nascosto delle cose insito nel dramma esistenziale, quindi espresso con il racconto scenografico e con la tensione istintiva degli animali. Non mi colpisce la dimensione ambientale della terra, ma quella antropologica, di scavo, di ricerca. Non vado mai a briglie sciolte, perché in ogni mia creazione il rigore illuminista fa da contrappeso all’impulso onirico.
Come definirebbe, complessivamente, la sua opera?
Non saprei, ma di certo non è mai distensiva, armonica, piuttosto urtante, perfino controproducente. La provocazione è un modo per fiutare il pericolo, per frugare nel sociale, per lanciare un messaggio oltre il visibile e che faccia pensare il visitatore che guarda.
Quali riscontri ricorda con più piacere, nel corso di tanti anni?
Le Biennali di Venezia del 1966, 1972 e 1976, il successo negli Stati Uniti, in Israele, in Olanda, in Germania e soprattutto in Giappone, una terra che apprezza la scultura italiana. Ho preso parte come scenografo al film di Federico Fellini E la nave va. José Saramago, Premio Nobel per la Letteratura, nel libro Manuale di pittura e calligrafia, mi ha dedicato uno spazio di rilievo. Potrei citare molti altri momenti decisivi della mia attività e gli incontri personali che hanno segnato una svolta. Da ragazzo la poesia di Leopardi mi ha aperto la mente, mi ha fatto capire che esiste un infinito misterioso da sondare. Da lì sono partito, dal piccolo passero solitario perso nella natura, per arrivare ad una scultura per lo più di concetto.
Nei suoi studi e nella sua opera c’è sempre stata una sintonia con la letteratura e la storia.
Sono attratto specie dai poeti. Cito un nome tra gli altri del Novecento: Salvatore Quasimodo. Era reazionario, ma estremamente evocativo, antico. Amo il mondo classico, latino. Il sito archeologico di Helvia Recina a Villa Potenza, cittadina dove sono cresciuto, mi ha provocato le prime suggestioni provenienti dal lontano passato. Io stesso feci degli scavi in questa colonia romana. Il medioevo con tutti i suoi pregiudizi e il Rinascimento foriero di novità, sono periodi storici che mi hanno stimolato spesso.
E le città, che cosa le hanno trasmesso e insegnato?
Moltissimo. Più di tutte Roma, che mi ha consentito la conoscenza di artisti come Burri, Marotta, Schifano, Ceroli, Pascali. La Roma che amava Pasolini. Cito, di Pier Paolo, i versi da Poesia in forma di rosa: “Si apre come un’aurora Roma, dietro le spirali del Tevere, / gonfio di alberi splendidi come fiori, / biancheggiante città che attende i non nati, / forma incerta come un incendio, / nell’incendio di una nuova preistoria”. La Garbatella mi commuove ancora oggi. E’ un riuscitissimo quartiere di edifici in stile coppedé, decorato con elementi architettonici disposti in modo asimmetrico. Qualcosa a metà tra lo stile liberty e la fusione con materiali come il marmo, il laterizio, il travertino, il vetro, la terracotta. L’incanto è totale.
Altre immagini del suo repertorio memoriale?
Sono quelle che provengono dalla civiltà contadina. L’aratro che solca la terra nella siccità e le zolle che raspano sotto il macchinario hanno avuto un impatto fecondo per me, come altri oggetti di forma allungata, metallica. La falciatrice, l’erpice, il trinciaforaggi, la corda, il cavo d’acciaio.
Ancona ha ancora una sua malia, un suo fascino?
Di Ancona preferisco di gran lunga il periodo greco, quando la città ha dato il meglio di sé. L’anfiteatro romano mi ha fatto sognare la vita del gladiatori. L’Arco di Traiano, snello e armonioso nella sua monumentalità, mi fa venire in mente l’affaccendarsi presso l’area portuale, i traffici anche clandestini di un tempo che non tornerà, e insieme una visione storica che sembra di poter vedere ancora.
Progetti futuri?
Vorrei tornare alla scultura, ma ultimamente oltre a disegnare, ho preso possesso della parola con sempre maggiore convinzione. Scrivo anche in latino maccheronico. Appunti, memorie, meditazioni.
Alessandro Moscè