LE TINTEGGIATURE DELL’ADDIO DI YARI SELVETELLA

Yari Selvetella, nato a Roma, presentatore di Rai Uno e autore di libri specie sulla criminalità organizzata, con Le stanze dell’addio (Bompiani 2018) ha scritto un romanzo sull’ossessione della morte, quella della sua amata, e sul tentativo di riprendersi, di riconsegnarsi alla vita. Può succedere che non si riesca a difendere l’amore, che lo si porti addosso lungamente come l’odore di un ospedale (definito un “lungo intestino” che per molti diventa anche una città alternativa, un indirizzo di residenza), del laboratorio analisi, dei corridoi dove viene portato il cibo ai malati dei reparti della sofferenza con le luci al neon. Pur non essendo scritto in forma autobiografica (il libro è anche traslato sotto forma di voce estranea e nell’osservazione di un barista che si rivolge all’uomo rimasto vedovo), si può leggere il dolore di Yari Selvetella per la morte di Giovanna De Angelis (editor di professione e scrittrice), la donna che ha dato tre figli al narratore. Ricomparire sul luogo del male significa non voler abbondonare chi ha ceduto dopo una gara di resistenza in un climax sospeso e fluttuante. Lo zaino, la zip, il caffè, il pigiama: tutto ritorna, come i lividi, gli aghi, le flebo. “Non riesco a ricordare il nome di quella tortura che ha lo scopo di verificare la fluidità, lo scorrimento di certe irrorazioni, le quali pare vadano estratte con lunghe siringhe speciali particolarmente dolorose per le persone magre come te”. L’io narrante crede che la donna sia scappata e la cerca come quegli avvoltoi che girano intorno ai cadaveri prima di andarsene definitivamente dal luogo di una strage animale. Un istinto indecifrabile spinge a rientrare tra i malati, a compiere atti ripetuti centinaia di volte. Yari Selvetella procede con rapide tinteggiature, con atmosfere interscambiabili, fosche, perplesse, con flash immaginativi pregni di angustia. Sembra che ogni descrizione sia un apparire che combacia con il tremendo ricordo. Gli oggetti ingombrano di continuo la mente: un quaderno, una penna, un libro, una carta gommata. Fuori c’è il mondo che scorre, c’è la gente che guarisce. Ogni visione è parziale, come la minaccia di chi non conosce la tristezza, di un dottore indifferente, di un’infermiera taciturna. Il compagno, rimasto solo, sale e scende le scale, entra ed esce dai luoghi disagevoli del nosocomio: “bestia tra le bestie, terra alla terra”. La verità è amara, rinnegata: la bella signora aveva un bozzo pieno di cellule tumorali, un cancro al midollo osseo. E’ morta in attesa di trapianto dopo il terzo ciclo di chemioterapia. La fine (un “grembiule trasparente”) parla, come l’amore, un altro amore. Bisogna sopravvivere, combattere, non arretrare. “Si nasce, si muore. Non c’è altro”. Continuare vuol dire superare la morte tossendo, sputando, ingoiando un sorriso ebete, con i figli più piccoli che dormono nel lettone e vogliono essere protetti. Vuol dire programmare vacanze, acquistare biglietti, allontanare le ombre, i sogni, il tempo passato, rivendicare un futuro facendosi la barba, mangiando i gamberi e respirando le foglie balsamiche. Eppure l’ospedale torna ripetutamente. “Verso sera la tristezza insidia gli interstizi e filtra attraverso il tufo delle mura per stordire tutti fino al silenzio e poi il sonno”. Il taglio del romanzo è un assedio di parole, una forma da riempire con il sudore, il pianto e la dedizione. Non mancano frasi sibilline e controverse per chi è ingoiato dalla morte, dai misteri reconditi e insondabili. L’amore, infine, tende sempre una mano. E’ un ritratto che acquisisce lentamente una fisionomia, nonostante le crudeli stanze dell’addio.

Alessandro Mos

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