CESARE GARBOLI CRITICO SIMMETRICO

Cesare Garboli, scrittore, critico, traduttore e consulente editoriale, è venuto a mancare nel 2004. E’ stato uno dei più importanti e originali saggisti italiani, difficilmente collocabile nel panorama odierno. Si è occupato di Soldati, Calvino, Penna, Parise, Banti, Citati, Morante, Ginzburg, La Capria. Riteneva il romanziere una persona ricchissima di fantasia, che con i vapori della propria immaginazione “fa essere” il mondo, lo imprime, lo timbra. Un romanziere non ha mai punti di riferimento reali, e nemmeno Garboli li aveva, così che Vincenzo Pardini gli riconobbe un tono militare, un’espressione scrutatrice e beffarda, con quegli occhi di un blu elettrico che incutevano timore. Dicono che volesse stare spesso da solo e che fosse ben attento a non farsi strumentalizzare. Il suo rapporto diretto e viscerale avveniva solo con i libri, un corpo a corpo combattivo, indissolubile. In Storie di seduzione (Einaudi 2005), libro uscito postumo, Garboli ammise di essere invaso dal demone del romanzo e assalito dal suo raptus. Al Salone del Libro, nel 1992, Enzo Siciliano lo intervistò sul senso del vedere insito nel leggere. Garboli rispose: “lo credo che la nostra esistenza sia fatta per tre quarti di vapori irreali. Le nostre emozioni, i nostri pensieri, i nostri sogni, i nostri giudizi. La quota di realtà di cui noi viviamo è molto sottile, è molto piccola. Non è un pensiero mio ma di Simone Weil. Allora, se io devo pensare che sono un critico, come talvolta qualcuno mi dice, faccio fatica a riconoscermi come tale se si pensa che il critico sia uno che distingue tra bello e brutto. Se questo è il critico, io sicuramente non sono questo, perché il mio interesse estetico è molto limitato. Sono però un critico nel senso che mi interessa verificare se i libri sono portatori di una realtà oppure no”. Questa risposta pone un interrogativo stucchevole, che ancora resta: chi era Garboli? Un critico, ma anomalo. Uno scrittore, ma singolare. Un polemista, ma inconsueto. Per qualcuno è stato un critico all’incontrario, perché avrebbe usato, saccheggiandola, la biografia dell’autore per capire le opere fino in fondo, non partendo direttamente dall’oggetto libro, ma arrivandoci in una seconda fase. A Garboli interessava la vita più intima e segreta dello scrittore, punto di snodo per arrivare ad una comprensione dell’immaginario, dell’attività creativa. Cercava qualcosa di integrale, non di transitorio. Garboli è stato, soprattutto, un critico simmetrico. Ha collegato con sapienza la storia, una qualunque storia romanzesca, e la verità dell’uomo scrittore. Quasi che la narrazione fosse un approdo non immediato e non assolutamente necessario. C’è sempre un preambolo che costituisce un centro motore, un mondo curioso da sondare, praticabile, raggiungibile. Garboli era anche attratto dalla cronaca: il caso Moro e il caso Tortora, tra gli altri. Gli interessavano le vicende e i risvolti taciuti per capire l’Italia e la prospettiva dei casi emblematici come indice per visualizzare un Paese nascosto, un secondo Stato. I suoi scritti civili non si basavano sul commento, andavano oltre. Viravano verso l’altra Italia, verso il non detto, il non citato, il non compreso. Certamente Cesare Garboli pensava con la propria testa e sapeva essere sconveniente per espressa volontà e per rivendicata libertà: volontà e libertà di afferrare il passato e di collocarlo nella realtà (verità), spostandolo nel tempo, muovendolo come una pedina. Era forse questa la sua più acuta finezza, la sua nervatura tra storia e presente, tra cronaca e natura. E infine tra persona e libro. Senza alcun compromesso per una conquista pressoché unica, dove l’autenticità permette sempre l’affinità elettiva con il lettore.

Alessandro Moscè

 

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