Lo scrittore invisibile (Gaffi 2014) di Alfonso Berardinelli è una raccolta miscellanea di interventi, nonché di interviste, sul ruolo di intellettuale, di critico militante (termine “strano e bellicoso”) diviso tra l’accademia e il giornalismo, capace di praticare un mestiere discutendo sui metodi inseriti tra storicismo, formalismo, strutturalismo, post-modernismo e una visione dell’attualità priva di schemi fissi. Il libro è curato da Angela Borghesi ed emerge immediatamente che per avere dei “difetti definibili” la nostra critica dovrebbe prima cercare di esistere invece di suicidarsi nel cosiddetto maquillage culturale. Berardinelli rivendica, nonostante tutto, un diritto, “perché siamo ancora un paese scarsamente educato alla critica”. Ma impattiamo in uno scrittore anomalo, che sorride se lo si chiama professore, che contraddice l’uso dell’impegno e una certa inefficacia e isolamento tipici dell’Italia culturale. Berardinelli opta per una critica al costume, alla politica, alla società, al termine rivoluzione, usato un po’ ad effetto (l’idea della rivoluzione è stata un mito che nell’Occidente moderno è diventata una teoria). E sul pensiero unico del Novecento annota che “il marxismo ha fatto deserto di tutto ciò che lo ha preparato e accompagnato, e quando è crollato sembra aver lasciato il deserto dietro di sé”. L’Italia risulta un paese vario, ibrido, con un carattere non propriamente nazionale, innamorato delle parole. Berardinelli sostiene che l’élite culturale è finita da tempo, in ragione del fatto che nel passaggio dalla cultura alla vita sociale “c’è di mezzo una realtà indomabile” (mentre il male avrebbe a che fare sempre con l’irrealtà). In un’intervista rilasciata nel 1993, afferma: “Penso che una delle cose più nuove che ci troviamo di fronte è proprio la scoperta che la politica è un brutto affare”. C’è la tendenza a respingere la delega ai partiti di tutto ciò che non appare un problema di natura economica: sogni, utopie, ideali, come fosse necessario delimitare i fatti sociali. Su “L’Unità” del 31 ottobre 2001, a Filippo La Porta, Berardinelli ha dichiarato: “Credo che ci sia un’incompatibilità tra politico e intellettuale, tra la vocazione a capire e ad esprimersi. Anche noi siamo fondamentalisti: fascismo e comunismo erano forme di fondamentalismo. Dovremmo liberarci, ora, del fondamentalismo della produzione, del consumo e delle borse”. La cultura italiana è molto debole, perché la democrazia risulta l’invenzione di una parte ristretta del mondo che tende sempre a mantenere posizioni di rendita. Berardinelli rifugge anche dal sistema università dal quale proviene: “All’università ci sono mediocrissimi individui che si divertono ad esercitare un fascino enorme. Costruiscono un proprio mito, lo alimentano, si pavoneggiano per tutta la vita. La loro autorità è garantita dall’istruzione, sono al sicuro. E soprattutto in un paese come l’Italia, a quanto pare, per gli intellettuali essere al sicuro è il massimo. Perché poi si può anche recitare l’audacia, la spregiudicatezza: tanto non costa nulla, è gratis”. Berardinelli tenta, ogni volta, di reinventare la critica, perché prende in esame la contingenza, il clima, la particolarità, la cronaca. “I migliori libri di critica sono legati ad un particolare momento”. In fondo, dunque, per lo scrittore invisibile, la critica ha fallito laddove non è stata capace di discernere non solo un’opera, ma la stessa società, la politica, le idee, il costume pubblico, in una sorta di antropologia del presente. Si manifesta un attrito in divenire, una mediazione non pacificata, un’esperienza vitale che Berardinelli riproduce nelle sue definizioni. Accusa infine la nostra cultura di non conservare il respiro e il gusto della conversazione come “segno di realismo”, come necessaria mediazione. Ecco allora che non potrebbe essere mai un attivista, un condannato a parlare alla collettività. Alfonso Berardinelli rimane l’iniziato che avvia un’azione democratica, che interroga l’altro per il piacere, semplicemente, di far propria un’opinione.
Alessandro Moscè