L’OMINO DELLA CASA DI RIPOSO

Racconto di primavera

Si respira un’aria antica, passando da queste parti. Il sole dell’estate filtra da tutte le parti ma in posizione obliqua, come una spada che colpisce angoli e muri. Il silenzio è irreale, tanto che la zona potrebbe apparire disabitata. In realtà non lo è, specie dentro la casa di riposo Vittorio Emanuele II. Passavo con la bicicletta, da ragazzino, prima di scendere lungo il corso cittadino. Le finestre dell’ospizio avevano le stesse inferriate dei manicomi. Qualche vecchio si affacciava e ritirava subito il volto sfatto per non farsi vedere. Fu in quei giorni di vagabondaggio cittadino, da “viaggiatore residente”, che conobbi Pierino, l’omino della casa. Piccolo, con un portamento da clown, dalla mimica facciale e dalla risata bonaria, fumava in continuazione e diceva di essere un uomo speciale. Veniva da San Severino Marche. Negli anni siamo diventati amici. Ha vissuto sempre in case di cura e di riposo. I genitori non lo volevano tra i piedi. Ma Pierino non si è lasciato irretire, né ha mollato con la vita. Infermiere a ore, falegname per ogni occasione, ha lavorato, si è dato da fare come poteva. In città si era sparsa la voce che portasse fortuna, per cui lo invitavano ai matrimoni, ai battesimi, ai compleanni. Pierino, l’amuleto vivente, aveva un cappello bianco con la visiera buono per tutte le stagioni, la camicia a scacchi e i pantaloni di velluto scuri bruciacchiati dalla cenere delle sigarette. Amava i clown, dopo aver visto al cinema, nel 1971, il film di Federico Fellini. Sperava di entrare in un circo e di fare qualche spettacolo con i palloncini gonfiabili, così da dimenticare la tristezza degli ospiti del ricovero, una volta ritornato tra quelle mura oppressive che lo accoglievano da quarant’anni. Raccontava barzellette e ballava il liscio, valzer, polche e mazurche. Amava in particolare Romagna mia di Raoul Casadei e si vantava di aver conosciuto il re del liscio ad una festa paesana, di avergli insegnato personalmente il saltarello, un ballo marchigiano ormai in disuso. Dopo la cena delle sei del pomeriggio, Pierino andava in bagno e nell’infermeria. Usciva vestito di tutto punto, con il camice verde a maniche larghe. Imboccava i malati, coricava gli infermi, si prodigava fino a notte fonda. E quando qualcuno smaniava, Pierino attraversava le stanze come un fantasma, si sistemava con una sedia impagliata ai bordi del letto e cercava di rassicurare gli insonni. Dopo la seconda o la terza barzelletta la notte sopraggiungeva anche per gli ultimi ansiosi. Allora Pierino si affacciava alla finestra posta sopra il portone d’ingresso del ricovero e tra una grata e l’altra fumava la sua ultima sigaretta del giorno. Guardava la luna e ci parlava ad occhi chiusi. Chiedeva, a suo modo, dove si nascondesse Dio. Era un bambino, e a settant’anni si poneva lo stesso interrogativo che mi assillava alle scuole elementari: “Se Dio c’è, perché non si vede? E la Madonna, dopo Lourdes e Fatima, apparirà ancora? Sarà vestita di bianco?”. Pierino sperava di vederla, “la Signora vestita di bianco”. Aveva letto in una biografia di Bernadetta Soubiros, che nella grotta, mentre insieme ad una sorella raccoglieva la legna in un boschetto, la ragazzina si accorse di Lei. Pierino riferiva che la Signora vestiva un velo bianco, una cinta blu, una rosa dorata sui due piedi e che teneva nelle mani un rosario. Non vedeva niente dalla finestra, eppure sperava che la Madonna gli facesse la grazia di apparire. Guardava il pozzo in mezzo al cortile, in un’area centrale scoperta e circondata da corridoi coperti. Un’area solenne e misteriosa che poteva creare dei misteri, con voci che salivano e coprivano la casa di riposo. Udiva una voce provenire da sotto terra. L’aldilà, per Pierino, si manifestava. Bastava un cenno. Se avesse buttato la cicca dentro il pozzo, qualcosa si sarebbe risvegliato all’improvviso. Si sedeva nella panchina di pietra del chiostro e aspettava girandosi, con le orecchie tese. Quando lo andavo a trovare si alzava in piedi, chiedeva immediatamente di uscire. Entravamo in qualche bar e ordinava un caffè o un anicetto, come lo chiamava, un liquore forte e dolce fatto con la sambuca. Il pagliaccio che era in lui si animava, diventava il personaggio che ha il compito di divertire gli spettatori negli incontri circensi. Faceva le boccacce, i cerchi di fumo nell’aria e incominciava a ridere. Mi ricordava la storia dei clown di Tristan Rémy, che amava le creature mitologiche di tutti i giorni, terrestri e lunari, a metà tra la realtà e il sogno. Uomini che potevano sparire per un colpo di bacchetta magica, trasformarsi in altri esseri. A Pierino piacevano i tetti, i gatti che li attraversavano. Gatti furtivi che saltellano nei posti più alti della città, che salgono e scendono dalle grondaie. Avrebbe voluto essere un felino, guardare tutti dall’alto. Fare bolle di sapone era uno dei suoi passatempi preferiti. Bolle resistenti, grandi, create con l’acqua distillata, calda e con il detersivo per i piatti. Pierino aggiungeva un cucchiaio di glicerina e con una cannuccia soffiava dentro. Le bolle di sapone invadevano la casa di riposo che si trasformava in un asilo. Gli anziani uscivano in pigiama, alcuni con le stampelle in mano, altri rimanevano attoniti. Qualcuno piangeva o rideva senza senso. Pierino era diventato un mago, una marionetta, un folletto. Si metteva un cappello di paglia e si avvitava su se stesso fino a farsi girare la testa, a non stare più in piedi. Sfinito, cadeva a terra con il fiatone. Nella casa di riposo le bolle di sapone veleggiavano senza scoppiare. Sfere gonfie dai riflessi viola e verdi. Un teatrino colorato in cui il clown riusciva a rendere protagoniste le bolle che piroettavano e scivolavano come trascinate dal vento. Le gocce iridescenti facevano ridere perfino le suore, di solito compassate. La giostra di Pierino si concludeva con le inservienti che ringraziavano perché il sapone, sceso sul pavimento, aveva permesso di pulire l’ambiente. Bastava passare uno strofinaccio e la casa di riposo diventava una specchiera.

Alessandro Moscè

 

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