La rivoluzione digitale è un processo complesso, da governare con attenzione. Se oggi si parla sempre più frequentemente di intelligenza artificiale, di progresso legato alla tecnologia, di industria 4.0, non può essere tralasciato un fondamento indissolubile, cioè l’animo umano. Che fine faranno i sentimenti, gli affetti, i cuori delle persone nel terzo millennio della robotizzazione? Leggo di automazione industriale, di smart factory, di nuovi modelli che creano collaborazione tra tutti gli elementi presenti nella produzione: operatore, macchine e strumenti. Le tecniche di gestione di una quantità infinita di dati, lasciano aperta la porta del futuro. Il Made in Italy può ancora salvarsi, così come si possono creare nuovi posti di lavoro affidandosi alla creatività del flusso nel cyberspazio. La digitalizzazione, però, va gestita con oculatezza. Uno psicologo, un filosofo, uno scrittore non guarderebbero mai solo al benessere economico, al fatturato di un’azienda o di una multinazionale, ma all’integrità della persona, alla sua serenità, alla preservazione di ciò che sembra essersi perso: l’interiorità del singolo. Tecnologia e sentimenti vanno d’accordo? Non rischiamo rapporti interpersonali opachi, sviliti, seppure potremmo trovare la chiave di volta per una ripresa economica dalla recessione del modello capitalistico che ha comportato l’avvento di nuove povertà? Di recente un ragazzo ha scritto: “Nel ventunesimo secolo la solitudine è accendere l’iPhone e non trovare notifiche”. Come non sentirsi esiliati in un mondo globale che entra in contatto diretto da un capo all’altro del continente, ma non vede e non parla più a viva voce? La tecnologia e l’umano (l’umanesimo, azzardiamo pure), corrono il pericolo di lasciarci nell’anonimato proprio mentre cerchiamo l’autoaffermazione ovunque, specie sui social media. Allora, che fare? Bisogna riscoprire il piacere di incontrarsi, di far sì che non cadano nel vuoto l’amicizia, la solidarietà, l’empatia, che l’amore sia ancora una risorsa e una dote. Emil Cioran, in Sillogismi dell’amarezza, nel 1952, scriveva: “Che ci sia una soluzione ai problemi, è cosa che preoccupa soltanto una minoranza; che i sentimenti non abbiano alcun esito, non mettano capo a niente, si perdano in loro stessi, ecco il dramma inconscio di tutti, l’insolubile affettivo di cui ciascuno soffre senza pensarci”. Non staremo meglio senza curare noi stessi, la nostra psiche. Siamo creature volubili che hanno bisogno di mettersi a nudo. Il nuovo umanesimo passa per il pensiero umano, come sempre. Ma questo pensiero deve essere anche sognante e visionario, deve conservare lo stupore, il piacere della scoperta dell’altro, prima che di una macchina. Se non saremo capaci di capirci tra noi, prima che di capire la cyber connection, per usare un altro anglicismo che va di moda, saremo avviati verso un esilio domestico, verso un autismo normalizzato. Sterili, ma senza più garze e bende per curarci l’invisibile (animo e coscienza). Recuperiamo il dialogo vis-à-vis perché l’uomo non spenga il suo battito dentro la sua virtualità, in una sorta di pericoloso analfabetismo emotivo.
Alessandro Moscè