Cambiano le città. Oggi si parla sempre più di “città diffusa”, intendendo la meno marcata distinzione tra centro urbano e periferia. Le città dell’epoca post-capitalista si assomigliano perché innanzitutto si spopolano. Penso a Fabriano, dove vivo, alla vicina Jesi o a molti altri centri marchigiani che conosco e dove mi reco frequentemente. Ma il fenomeno, appunto, è esteso a tutte le regioni italiane. La mancanza di lavoro spinge le nuove generazioni all’estero, o a concentrarsi in realtà geografiche dove la possibilità di utilizzare le proprie competenze professionali è più alta. Nei piccoli centri la crisi comporta un assestamento naturale nella riduzione, drastica, della densità di popolazione. Nelle nostre città rimangono a vivere i pensionati e i dipendenti pubblici. Di conseguenza anche la morfologia urbana cambia i connotati. La città si disperde, è condizionata dalla crescita (o per meglio dire dalla decrescita) rapida e disordinata. Questo fenomeno si manifesta nelle zone periferiche, data la connotazione di aree separate, sottoposte a continui mutamenti. Nelle metropoli abitare in periferia costa meno, ma con un’alta concentrazione di stranieri stanziali, andiamo incontro alla perdita di storia e tradizione secolari, di usi e costumi consolidati, dello stesso dialetto distintivo. Le piccole città, invece, subiscono la crisi in modo disarmonico e in alcuni casi rimangono ruderi industriali con capannoni in disuso, strutture fatiscenti, stabili inutilizzati. I legami sociali si assottigliano e i piccoli centri, più dei grandi, assomigliano a spazi degradati, indipendenti ma isolati, con ampie aree limitrofe sempre più difficilmente distinguibili. La città, in questi ambienti, è una strada di passaggio (il nonluogo di Marc Augé). Ma come vivremo territorialmente, tra due, cinque, dieci anni? In una sorta di policentrismo senza logica? In un ulteriore smantellamento dei centri storici ridotti a fantasmi, con case dalle finestre sbarrate? In una riorganizzazione pianificata solo dai servizi pubblici? In città organizzate per la loro funzionalità e per il risparmio delle famiglie solo in termini economici? Il rischio è di perdere la stessa connotazione di città, di accertare mestamente rimesse di agglomerati, scheletri vuoti, edilizie senza più regole e pianificazioni. Avremo città ipervisibili e sfatte? Italo Calvino, nel suo Le città invisibili del 1972, scriveva: “Ogni città riceve la sua forma da ogni deserto a cui si oppone”. Ma dopo tanti anni l’impressione è che questa massima sia stata sconfessata. Rischiamo che la città scompaia, come la campagna, come ogni riflesso antropologico insito nel luogo misero e disabitato: eppure anche una città dovrebbe far nascere la passione, senza diritto di proprietà, come per ogni bene comune.
Alessandro Moscè