GIUSEPPE GENNA E L’UOMO DEL DELIRIO

L’uomo del male per eccellenza, preda di deliri di onnipotenza e di improvvise abulie, impegnato tra guerra e disfatta: Giuseppe Genna, nel romanzo Hitler (Mondadori 2008) decifra un confronto serrato, in ben 600 pagine, un testa a testa già alluso nella premessa che è tutto un programma: “Confrontatevi con lui, considerate se questo è un uomo”. Il piccolo Adolf cresce e si nutre di sogni, di frustrazioni. Genna è documentato, non inventa nulla. Include particolari della vita di Hitler, più o meno noti, per raccontare un’evoluzione temporale. Il romanzo non sbava, è efferato come il suo personaggio. Ma la ricostruzione non è facile per un romanziere, perché smontare una finzione senza essere uno storico implica una capacità attitudinale e uno studio preliminare (che di solito gli scrittori sentono come un peso). Non c’era bisogno di questo romanzo, perché una trattazione dell’esistenza di Hitler non aggiunge nulla alla narrativa italiana di oggi, né tanto meno alla cognizione del personaggio storico in quanto tale. Però Genna è abile nell’inquadrare il germe che finirà per annientare un intero popolo. Dice che Hitler è un problema metafisico: “Non tentare di spiegare Hitler è una condizione penosa e tuttavia necessaria”. Fare del male solo per farlo: ecco cosa emerge dal romanzo distinto in capitoli veloci, ficcanti, in un linguaggio scabro, ritmico, come nel resoconto della morte del dittatore, nell’elencazione del buio, dei lampi, del fuoco bianco, del corpo che brucia, che si decompone, della cenere che si alza. Il merito di Genna è di aver evitato, sul piano ideale, la mitologia così come la mistificazione del male. Non ha concesso nulla a Hitler, che viene raccontato dall’infanzia che lo forma all’adolescenza che lo corrode, fino all’incredibile ascesa politica e allo scatenarsi di una cifra assoluta dell’umano. Genna coglie i gesti, stigmatizza i prerequisiti che rispondono, implicitamente, ad un’attesa del lettore. Corre sul filo del personaggio tra registri espressivi (letterari) e caratteriali (rappresentativi). L’elemento energetico scaturisce da tante curve, disegni, premonizioni. “Adolf Hitler preconizza il futuro, lo fa fiorire dal suo costante inizio, da quando ha iniziato: da sempre, da prima che esistesse lui. E’ percorso dal monologo omicida dell’Europa che lo figlia. Incarna duemila anni che ne fanno l’invaso. Nessun demone al di fuori dell’Occidente intero parla attraverso le vibrazioni corali, atone e gelide”. Se la pratica del libro fa affiorare la verità comune, la contrapposizione tra bene e male è uno specchio contro specchio. Giuseppe Genna scrive che nella Germania nazista esisteva solo lui, il Führer, “l’uomo solo di fronte al suo tempio rarefatto, penetrabile, ominoso”. Può essere retorico e antiromanzesco, ma il narratore ha detto di aver voluto estrarre la carie piuttosto che stimolare l’immaginario collettivo. Il risultato narrativo rimane una voce tra le altre. Non è un risultato banale o esaltante, ma neppure enfatico o inutile. Genna è un buon narratore di ambientazioni, tensioni, intolleranze. Lo avevamo già scoperto con Dies irae (Rizzoli 2006), dove i suoi personaggi si aggirano dentro e fuori la storia. Un romanzo borghese, horror e metafisico. All’alba di se stessa l’Italia si scopre moderna e inefficiente. All’inizio viene rievocata la tragedia del giugno 1981, con Alfredo Rampi, di appena sei anni, che rimase incastrato in pozzo artesiano. Diciotto ore di diretta televisiva raccontarono la sua fine trasformandola in un’icona mediatica. Fu quello l’inizio dell’era del satellite, dell’ipervisibilità, dello spettacolo del dolore che arrivò dentro le case degli italiani.

Alessandro Moscè

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