Roberto Pazzi ha un fare signorile, gentilizio, da monarca dei nostri tempi. Elegante, ben disposto al dialogo. Lo contattai, la prima volta, per avere la bibliografia sul suo romanzo Le città del dottor Malaguti (Garzanti 1993, ripubblicato da Corbo nel 2008). Mi rispose dall’autostrada nel tratto da Bologna a Ferrara e incominciammo un lungo dialogo che fu il preludio della nostra amicizia. Concordammo nel dire che la provincia è un luogo privilegiato per la scrittura, perché il sentimento del tempo scorre più lento e favorisce il sogno, l’illusione. Il tema del doppio è il leit motiv di Dopo primavera (Frassinelli 2008) dove il protagonista si scinde in una persona con le sue stesse sembianze, fino a che l’uomo non è costretto a convivere con un’esistenza identica alla sua. Aldo Mercalli è uno scrittore di successo che nella sua vita domestica, provinciale, si ritrova con l’assillo del decadimento fisico. Il tempo gli sottrae le età, gli toglie la vitalità e l’energia. Ne scaturisce un’identità sofferta, malcelata. “E mentre gli davo queste istruzioni capivo quanto dovessi risultare poco simpatico, con tutte le mie manie igieniste, le mie solitarie fisime per gli odori e il fumo. Mi rimandava un’immagine sempre un po’ diversa, sempre meno identica”. Pazzi entra ed esce da se stesso come in una rêverie. C’è sempre un ospite dentro di noi che ci cattura e ci inganna, che ci persuade e ci insegue. Dopo primavera si offre per un compimento, per un tremito verso l’altro. Altro da sé e altro in sé. Doppiezza, quindi turbamento, contraddizione, infedeltà. L’uomo è epuratore e mediatore della propria anima, come in questo romanzo che non tralascia il tentativo di conciliazione con la figura che si para davanti. Assistiamo ad un viaggio corporeo, quello del capolavoro di Dostoevskij, dove il “nostro eroe” (come lo chiama l’autore) è il consigliere titolare Jakov Petrovich Goljadkin, di cui è descritto passo dopo passo il degrado psicologico fino al raggiungimento della follia. In molti romanzi di Pazzi sonno e veglia si confondono. Il sonno come preludio al sogno e il sogno come anticamera della libertà, dell’abbattimento di barriere psicologiche. Questa condizione di passaggio dal sonno alla veglia, lungo lo scorrere di Dopo primavera, sarà costitutiva della condizione del personaggio sdoppiato, perché l’accesso alla veglia si fa metafora della condizione umana, apre uno scenario superbo, che ingoia mondo e cose, che suscita un sentimento irrazionale nel silenzio che l’accompagna. In fondo si può uscire da una superficie piatta, quella della quotidianità, solo attraverso la promessa. “Era migliore di me, come potevo non amarlo io, che entravo in casa con vite solo immaginarie al mio attivo? In fondo si trattava di un mondo di carta, inconsistente come bolle di sapone che svanivano nell’aria, senza lasciare traccia alcuna…”. Siamo nello stato del risveglio, in cui l’apparenza è vaga, in cui i contorni delle cose sfumano. La consapevolezza del doppio attrae e respinge come la forza di baciare il nemico. Dopo la primavera c’è ancora una primavera di sogni che mette a nudo la complessità del nostro corpo. Io servo, io padrone, ci suggerisce Roberto Pazzi. La realtà si forma, ma è arresa, prigioniera nel gioco dei disposti combinati, in un incastro perfetto tanto quanto è imperfetto l’essere umano. La nostra intimità indugia nell’operare lo scambio con l’altro in sé, fino a che anche la complicità con se stessi diventa un rompicapo ineludibile. “In e dentro le cose”, diceva Heiddeger, e non per astrazione, ma perché nulla passi inosservato. I sogni sono propedeutici a ciò che accadrà. Plauto e Pirandello, Wilde e Kafka insegnano ancora la scoperta letteraria dai tanti copioni.
Alessandro Moscè