IL MALE D’ESISTERE IN ENZO SICILIANO

Ricorrono in questi giorni i dieci anni dalla morte: Enzo Siciliano è stato critico, scrittore, insegnante, dirigente Rai, condirettore di riviste (“Nuovi Argomenti” su tutte), biografo, sceneggiatore e perfino regista cinematografico. Inoltre, anche negli ultimi anni, uno dei pochi maestri rimasti per le generazioni di giovani narratori italiani. Seguiva i ragazzi e li sapeva capire, indirizzare, indicava loro una strada formativa. Quindi un vero e proprio talent scout nel gesto encomiabile accompagnato da un’attività inesausta di scrittura. La casa editrice anconetana Italic peQuod ha dato alle stampe Cuore e fantasmi (2010), raccolta di racconti che vide la luce, la prima volta, nel 1990 da Mondadori. Una prosa asciutta accompagna storie di uomini e donne che vivono ripiegando su se stessi il malessere comune dell’esistenza, un virus che si addensa negli spazi chiusi dove i soggetti interagiscono. Una vita di nevrosi e ossessioni, come quelle della donna che teme l’ordine della sua casa e finisce per compiere un omicidio illudendosi di annientare una paura insensata. O come la vicenda della figlia che soffre per la madre che sta morendo di un “dolore sottile, penetrante, orrendamente anonimo” e non sa liberarsene. Il sonno dei personaggi di alcuni racconti è turbato da stati di dolorosa sospensione in un insensato horror vacui. Nulla da immaginare, da auspicare, da allontanare. Nulla perfino da esorcizzare, ma tutto che appare in una sintomatologia perdurante e inguaribile. E’ una sorta di depressività dell’anima che cattura anche il protagonista del racconto più lungo e più riuscito, dal titolo Dalle carte di un mediocre insegnante. Un uomo con “la testa impastata di recriminazioni” soffre la quotidianità e il rapporto con i colleghi: è un alieno che si muove nelle sabbie mobili del suo tempo. Il disarmo si accentua nei gesti e nelle parole, nell’osservazione mesta del mondo, nei riti compiuti con afasia. In queste aperture verso l’altro Enzo Siciliano dimostra il sunto di tutta la sua esperienza di narratore attento alla tormentata psicologia della contemporaneità (“E’ strano come la mente subisca improvvise sterzate nel corso dei suoi pensieri, e muti d’improvviso orizzonte. Puntualizzavo il piano perché Consuelo fosse mia, anzi più mia di quanto non fosse stata fino ad ora, quando venni travolto da una serie angosciosa, complicata di perché. Perché sono qui?”). Qualcosa sfugge alla presa, alla sostanza delle cose, pur conservando una sobrietà di fondo, un’ansia generatrice che finisce, però, per soffocare. L’occhio di Enzo Siciliano ricorda quello di Alberto Moravia, del quale fu amico e sodale. Come inebetito dall’azione, l’insegnante si imbatte in una crisi senza uscita. Il problema non è mai legato al corso degli eventi, alla contingenza, alla storia o ad un’appartenenza specifica. Sembra che il genere umano, capace di rispondere alle sollecitazioni dell’età dell’amore e della professione, sia bloccato dalla paura. Come scrive Mario Desiati nella bandella di Cuore e fantasmi, “il classico della narrativa di Siciliano è il senso di limpidezza e nitore della sua scrittura, nella naturale tensione verso la pietas”. Pietas che non irrigidisce i protagonisti, che non li svaluta, che non li trasforma. Rimane una dolce, malsana insolenza a contagiarli, e non c’è medicinale che possa far effetto per illuminare il gioco dei fantasmi. I protagonisti dei racconti si avviano alla morte senza morire. Ogni momento descritto è gettato volutamente nell’ombra, in una risonanza smunta fino ad apparire ambigua nella caustica scrittura. Il cuore non batte all’unisono con il tempo e gli accadimenti, ma in un’oscillazione dolorosa. Fino alla tentazione di non esistere neppure, direbbe Emil Cioran.

Alessandro Moscè

SICILIANO
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