IL SACCO DELLE PAROLE

Ce ne eravamo già occupati in un articolo postato il 27 aprile, ma torniamo sull’argomento. Le parole, oggi, non hanno più significato perché non esistono più se non nel bailamme di un’oralità stringata, usando un francesismo che rende l’idea. Sono barili svuotati, inutilizzati. Parliamo poco, male, e scriviamo peggio. Una volta, nelle scuole, si andava a caccia dei sinonimi per ampliare il vocabolario, mentre nel terzo millennio contrassegnato dall’ipertrofia dell’io e dalla comunicazione fulminea, caotica, non utilizziamo mai il dizionario. Papa Francesco ha indetto l’anno della misericordia riferito a una delle Beatitudini (“Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia”), indicato anche come tema della giornata mondiale della gioventù. Se chiedessimo agli italiani cosa vuol dire essere misericordiosi, in pochi saprebbero dare una definizione. Sarebbero tutti presi alla sprovvista, sorpresi. Misericordia, un qualcosa che ha che fare con la chiesa, con Cristo, con Dio. Essere buoni, è stato detto dai più, generosi. Ma il sopra e il sotto del buono, cosa ci indicano? La misericordia può essere addirittura narrata. Ce lo insegna proprio Bergoglio. Sentire come proprie le miserie e le difficoltà degli altri. Preoccuparsi e darsi da fare di fronte alla sofferenza altrui. È questa una grazia, un puro dono di Dio, eppure così difficile da introiettare. Ma torniamo alla parola, al sacco del linguaggio, che richiederebbe, stavolta, la misericordia di un recupero, di una rivalutazione, dopo tanta desuetudine. In fondo, siamo ciò che diciamo, per cui andrebbe fatta una crociata contro il sacco delle parole. Per il 98% delle comunicazioni tra italiani sono sufficienti 6.000 parole (circa 2.000 quelle ad altissima frequenza che usiamo fin da piccoli). Il lemmario del Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia ammonta a circa 210.000 vocaboli contemplati, mentre il lemmario del Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro ne annovera più di 260.000. Cosa perdiamo, in definitiva? Un patrimonio espressivo, innanzitutto, che genera dialogo, comprensione, approfondimento. Perdendo le parole perdiamo il ragionamento. La parola è dunque pensiero, una ricchezza insostituibile. Ci avviamo verso una comunicazione più gestuale che parlata, verso il silenzio della nostra coscienza, testimoniato dall’uso dei social network come mezzo semplificativo. Il sacco delle parole ci fa essere evasivi, superficiali, sfuggenti. Ci fa essere tutti uguali. “La parola è una specie di laminatoio che affina i sentimenti”, scriveva Gustave Flaubert in Madame Bovary. Come a dire che se non parleremo più non saremo neanche più capaci di amare. Ci creeremo una realtà parallela, falsificata dalla fretta di dire e soprattutto dalla sofferenza del non dire. Saremo sempre più isolati.

Alessandro Moscè

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