“Tonino era un tutt’uno con un piccolo mondo trasformato nell’universo dalle sue poesie, ognuna con l’infallibile precisione, cioè l’inimitabile alleanza degli occhi e del cuore di un poeta che portava i pensieri e le cose ad un’altezza sorprendente”. Sono state queste le parole che Sergio Zavoli ha utilizzato durante l’orazione funebre per Tonino Guerra. Viveva a Pennabilli e amava profondamente il suo borgo, la case di pietra, i coppi scheggiati, le porte di legno consunto, gli scalini incurvati, l’odore della pioggia e del vento che sapeva sentire. E’ morto il primo giorno di primavera in quella Valmarecchia che aveva decantato, descritto e reinventato tra passato e presente, come la Russia nella quale andava ogni anno e dove trovava lo stimolo per scrivere “parole raccolte nelle fessure del mondo”. Tonino Guerra, nel 1943, durante il secondo conflitto mondiale, venne deportato in Germania e internato nel campo di concentramento di Troisdorf. Qui, per intrattenere i compagni di prigionia, iniziò a raccontare storie come faceva nelle campagne della sua Romagna accanto al fuoco. Dopo la guerra si laureò in Pedagogia presso l’Università di Urbino con una tesi sulla poesia dialettale. Fece leggere i suoi componimenti a Carlo Bo e ottenuti positivi riscontri decise di pubblicarli a sue spese con il titolo di I scarabocc. Nel 1953 si trasferì a Roma e scoprì una dote legata alla sua scrittura forse più congeniale, la sceneggiatura. Così Tonino Guerra incontrò il grande cinema. Il debutto sul grande schermo avvenne nel 1957 con Uomini e lupi di Giuseppe De Santis. Ma i due maggiori incontri furono con Michelangelo Antonioni e Federico Fellini. Del primo firmò la sceneggiatura del film L’avventura e di altri capolavori, mentre con Fellini nacque una profonda amicizia. Fu Guerra a sceneggiare Amarcord. Lavorò con altri grandi registi come De Sica, Monicelli, i fratelli Taviani, Rosi, Damiani, Lattuada, De Martino, Petri, Tarkowskij, Wenders, Angelopoulos. Poeta e raccontatore (ma mai romanziere), nella forma letteraria evidenziò una visione angelicata del mondo naturalistico, la predilezione per la civiltà contadina, tanto da diventare un Omero delle sue campagne, come disse una volta a Natalia Ginzburg. Guerra aveva una forte attrazione per i personaggi strampalati della Romagna, uomini e donne capaci di dire che “l’aria è quella roba leggera che ti gira intorno alla testa e diventa più chiara quando ridi”. La sua ultima opera in prosa data alle stampe è stata Polvere di sole (Bompiani 2012). “Da tempo sono convinto che i rumori, le parole, i lamenti degli animali non si sciolgano nell’aria. Continuano a vivere muovendosi nel vento così da capitare e farsi sentire in altri paesaggi, magari in altri stati. La conferma di questa mia convinzione l’ho avuta in Georgia dove sono stato sul bordo della conca della musica, una vallata dove arrivano rumori già usati in altre parti del mondo”. La versatilità di Tonino Guerra era improntata alla scoperta della bellezza dei gesti: puri e abitudinari. Non aveva tempo la sua scrittura, perché recuperava sempre la transitorietà delle persone e delle cose. Anche le pietre e i sassi potevano parlare, esprimere sentimenti dolci, infantili, inattaccabili. Le sue affermazioni improvvise, trascritte, emanavano fascino ed erano preamboli alla costruzione della stessa poesia. “Quasi sempre parto stando seduto nel mio studio. Impariamo a guardare i ciliegi in fiore, ecco un viaggio meraviglioso. A Pennabilli, dalla piazza a casa mia, posso scoprire il mistero dell’Oriente lontano”. E’ vero ciò che è stato detto per definire Polvere di sole: un vero “presidio di bellezza” contro l’oscurità dello spirito, per la lettura costante di una storia diversa che ci aiuta a resistere agli allarmismi apocalittici della bruttezza e a muoverci nelle zone più profonde della nostra memoria.
Alessandro Moscè