GIAN MARIO VILLALTA: DARE SENSO AL LUOGO

Friulano (nato a Visinale nel 1959) che scrive anche in dialetto, testimone del passaggio dell’ultima civiltà agricola a quella industriale, propenso ad una scrittura sostanzialmente lirica, in parte immersa nella natura, Gian Mario Villalta non è stato persuaso dal primo Pasolini giovane abitante di Casarsa, ma ha annodato con Andrea Zanzotto il laccio di una continuità locale che dalla valle di Soligo, nell’alto trevigiano, arriva dalle parti di Pordenone salvaguardando la parola testimoniale. Parola del tempo che passa ma che resiste nel “dare senso”, come si trattasse del gesto di chi tende la mano all’altro uscendo dal guscio protettivo dell’io. Poesie (Garzanti, 2025) di Villalta è il vasto insieme dei testi migliori di un poeta che ha esordito nel lontano 1982, che ha raggiungo un consenso di critica immediato e di pubblico specie con le due raccolte Vanità della mente (2011) e Dove sono gli anni (2022). La prefazione di Massimo Natale, molto centrata, pone in risalto il tema fondante di questa poesia, la perdita: della lingua dialettale, del paesaggio intatto, del rito della lavorazione della campagna, ma anche dell’uomo, continuamente radicato e sradicato nel dialogo con sé stesso, spostato da un luogo indistinto e poi tornato indietro, agli anni dell’idillio, del rimanere nella terra materna. Villalta sa contestualizzare il dialetto e la lingua italiana trascinandoli in una compostezza prima di tutto esistenziale. Se come sostiene Natali il dialetto è la lingua della soggettività e dell’auscultazione degli attimi interiori, il resto dei testi è diluito nella descrizione di fotogrammi, nelle riflessioni su storia e desiderio, indirettamente sulla dualità corpo/anima, sulla morfologia di un mondo cantato, assediato dalla conquista economica della realtà e da quel “progresso scorsoio” di cui parlava proprio Zanzotto. “El vento no l’à pietà, ‘l fa sentir / el dolor de ‘ver radise, e’l ghe ride / drio a chi no le à / co’ speranse de ‘ndar lontan, / e se no’l scavassa / tut res istess”. (“Il vento non ha pietà, fa sentire / il dolore di avere radici, e deride / chi non ne ha con speranze / di andare lontano, e quando non spezza / tutto resta uguale”). E’ il sentimento dell’accoglienza che si fa strada in una poesia dal tono conciliatorio, dove le ore e i giorni si sintonizzano con la luce, l’aria, la materia. Le cose e le persone sono parte attiva della macchina del ricordo, della voce della gente che si perde lontano. Villalta risponde sempre ad una sollecitazione che lo scorpora dalla tensione dell’io per ricreare una vitale consistenza nell’habitat del quale si nutre profondamente. La natura è una linfa che pulisce l’orizzonte e lo innerva di umanesimo, quasi fosse una vocazione sacerdotale. “Immagino un campo appena arato, la terra fresca ancora / e l’ora del tramonto che si avvicina / con una nebbiolina sotto i pioppi, un alito dai fossi, una carezza / che viene lenta e sente di selva, lontananza e marzo”. Il piacere della versificazione si nutre di un tempo e di un luogo che rievocano il cammino dentro un’appartenenza inscalfibile. Villalta immagina, guarda, ragiona. Il suo presente è l’altrove del passato, è una scenografia che si alimenta di tracce sensibili. Il poeta trova una sintesi compiuta nella relazione umana e nella solitudine della vista che si lascia andare allo stupore di paesaggi, eventi e parole, ad una sequenza di frammenti che dal ricordo si spostano sul versante stesso del sogno. “Ma dove vanno le nuvole, col vento, / o sono parte dello stesso, o resistenze / nel vento, resilienze, solo parte / della stessa matrice, la materia / dei desideri dove divento?”.

Alessandro Moscè

 

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