Fari accesi sui mondiali di calcio in Qatar per motivi extra sportivi. Era impensabile che un evento di portata internazionale non fosse condizionato dalla politica comunitaria, tanto più che la manifestazione si tiene in un Paese che ha sfruttato i lavoratori migranti (ci sarebbero stati più di seimila morti) per la costruzione degli stadi, delle metropolitane e delle infrastrutture viarie. Giorni fa è stato raggiunto il culmine con il divieto, pena l’ammonizione dei giocatori dell’Inghilterra e dell’Olanda, di indossare la fascia arcobaleno in uno Stato in cui l’omosessualità è illegale e punibile con la detenzione. Qual è l’opinione ufficiale della Fifa? Il presidente Gianni Infantino si è allineato al volere del governo qatariota per evitare un incidente diplomatico e il rischio della sospensione dei mondiali stessi. Nel frattempo la squadra iraniana non ha cantato l’inno nazionale per protesta in difesa dei diritti delle donne contro il regime repressivo. Non credo (e non lo dico per paradosso) che sia un male aver scelto il Qatar per l’avvenimento: può essere davvero un’opportunità. Ora le tematiche di rilevanza universale sono amplificate e tutti sanno come nel Medio Oriente, in più paesi, la violazione dei diritti umani elementari è all’ordine del giorno. Lo sanno, per la prima volta, i giovanissimi che non conoscevano nulla di questa realtà. Tutto il mondo è in diretta e ciò che è spesso celato risulta evidente come mai si era verificato prima. Si sa perché i tifosi iraniani hanno alzato il dito medio, fischiato l’inno e perché le ragazze, allo stadio, avevano le lacrime agli occhi. Si sa il motivo per cui stato esposto uno striscione inneggiante alla libertà. Si sa che “essere gay significa avere un disturbo mentale e pertanto non è giusto che i bambini vedano certe persone sugli spalti”, secondo quanto riferito testualmente da Khakid Salman, ambasciatore del Qatar per la Coppa del Mondo (prima che l’intervista venisse interrotta). Un segnale di sostegno per la comunità LGBTQI+ arriva come un’onda travolgente, più di qualunque corteo. Quanti, viceversa, sapevano che ad ottobre l’arrampicatrice iraniana Elnaz Rekabi ha gareggiato in Corea del Sud senza indossare il velo islamico e pertanto è stata arrestata? Il calcio trascina con sé, data la popolarità, una sommossa che non ha nulla a che vedere con le prestazioni agonistiche delle stelle Messi, Ronaldo, Neymar ecc. Da un punto di vista comunicativo non poteva esserci momento migliore per attenzionare l’opinione pubblica, per muovere le coscienze dei governanti, per evidenziare stucchevoli controversie. Del resto Gesualdo Bufalino diceva che “sociologo è colui che va allo stadio per guardare gli spettatori”. Sarebbe un errore boicottare il mondiale in uno strano pezzo di terra sul Golfo Persico, ricco di petrolio, dove i turisti fanno il safari nel deserto ma dove ci sono restrizioni tanto ferree quanto inconcepibili. Cosa dire e come dirlo: a volte le immagini parlano più delle parole, l’intensità di un gesto supera un ammonimento. Il mondiale di calcio ha dimostrato che siamo tutti meno estranei: adesso il pallone è il più grande comunicatore e smaschera le forze militari e giurisdizionali che riservano minacce, azioni penali e carcerazione alla società civile e ai pacifisti.
Alessandro Moscè