L’ACQUA E LA NATURA MATRIGNA

Ci sono catastrofi non prevedibili, ribellioni della natura che diventa un drago tutt’altro che leggendario, un mostro demoniaco precipitato sulla terra. Un essere incontenibile che non emette fuoco come nell’apocalisse, ma acqua, fino ad inondare e a sommergere città, paesi, campagne, contrade, borghi. E’ questa l’azione di una natura matrigna. La distruzione delle calamità naturali fa paura più di ciò che è provocato volontariamente dal gesto inconsulto dell’uomo, perché in questi casi non si riesce mai ad individuare un responsabile unico. A seguito della recente alluvione non è sufficiente calzare la mano sull’inerzia di chi non avrebbe provveduto alla manutenzione e alla bonifica di un fiume, richiamando l’imperizia, la colpa, la mancanza di interventi specifici. Nel 2022 la morte per soffocamento indotto dal muro di fango che ha travolto le persone sembra una notizia irricevibile, alla quale è difficile credere. Eppure è accaduto proprio nelle Marche, le mie Marche. Si era parlato di temporale autorigenerante ed è finita con una tragedia di grandi proporzioni. Johann Wolfgang Goethe sosteneva: “Ciò che mi stringe il cuore è la forza distruttrice riposta nell’essenza stessa della natura, la quale non ha mai creato cosa alcuna che non sia destinata a distruggere il prossimo, a distruggere sé stessa”. La natura crea e si trasforma, non dovrebbe distruggere, appunto. Siamo abituati a ritenere la natura provvista di una forza atavica, benefica, di ciò che Gustav Jung chiamava “saggezza creaturale”. E’ stato così dai tempi della filosofia aristotelica e anche prima. Dall’acqua nasceva la materia, dunque il mondo, secondo la cosmologia di Anassimene che studiavamo al liceo. Tornando a ciò che è accaduto in Provincia di Ancona, la constatazione retorica è che la morte degli innocenti, specie dei bambini, lascia sgomenti. Torna in ballo l’incrocio tra il caso e il destino, tra la fatalità e l’ineluttabilità. La buona stella ha lasciato le Marche, quasi che un nichilismo sovrannaturale abbia preso il sopravvento nullificando il valore tradizionale del rispetto dell’altro, della sua terra. In questo caso della tranquilla provincia, dove il tempo scorre lentamente, dove un possedimento è ancora una fonte di reddito, dove le dolci colline rappresentano un’oasi di pace, lontano dai rumori, dagli affollamenti, dai grandi agglomerati. Si perde la vita anche aprendo una finestra, come è successo ad un’anziana risucchiata dal mulinello della piena che poco distante ha strappato dalle mani della madre un bambino di otto anni. A chi si appellerà l’afflitta signora che ha perso il marito e il figlio? Contro chi imprecherà? Quale rassegnazione la potrà pervadere? Quale rabbia e inerzia, in un’ambivalenza emotiva dirompente come il fiume Misa? C’è chi ha perso la casa, chi dovrà necessariamente ricominciare da capo. Sarà mai possibile riorganizzare l’esistenza facendo leva sull’accettazione, sulla razionalità? Come far conciliare presente e futuro, bene e male? Come saltare l’ostacolo? Il tema dell’assoluto e la quotidianità sono spesso inconciliabili. Una volta il grande francese Philippe Forest, al quale è morta la figlia di malattia, mi disse che oltre un certo punto resta solo la preghiera, ma la voce tace e la bocca è morta. Chi pregare? Le parole fanno spesso una litania assurda. Forest mi inviò una e-mail nella sua lingua che non riuscivo a tradurre, ma il significato doveva essere questo, più o meno: “A lei parlavo ossessivamente nel recinto d’echi del mio cranio”. Questo strano pensiero si associa ai parenti delle vittime marchigiane, all’incubo di una bomba d’acqua che ha aperto voragini che non si potranno più coprire.

Alessandro Moscè

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